I riluttanti.
Le élites italiane di fronte alla responsabilità.
di Carlo Galli
Laterza, 2012
pp. 130
Intervento di Franco Debenedetti al seminario su I riluttanti di Carlo Gallo, tenutosi il 7 giungo 2012 presso Casa editrice Laterza a Roma
Ci sono le élite e c’è la teoria delle élite. C’è la storia di cosa hanno fatto, del ruolo che hanno avuto; e c’è la storia di come sono definite, di come viene pensato il loro modo di formarsi e di agire. Ne “I riluttanti”, i primi due capitoli parlano di teoria delle élite; il terzo invece parla delle élite, quelle attuali, con severi giudizi sulle loro caratteristiche negative: di cui conseguenza è la riluttanza, intesa come “cinismo, apatia, mancanza di cultura, sottovalutazione del ruolo necessario della politica o della sua funzione universale” (XI). “Nell’età berlusconiana – scrive Galli – le élite non vogliono più sobbarcarsi il peso della libertà creatrice e del rigore disciplinato(110) […] Delle élite che non vogliono più essere tali nel senso pieno della parola, e in parallelo di una società che crede di non avere bisogno di élite, è stato garante Berlusconi.” (116). E’ un modo nuovo di motivare la condanna del berlusconismo: in questo consiste l’originalità del libro.
Galli disegna una prospettiva storica. Pur con tutte le cautele del caso (“è solo un rilievo critico-empirico” 85) “la storia politica italiana sembra scandita da un ritmo costante, dapprima una grande decisione egemonica ( Il Risorgimento, la Resistenza) fonda una legittimità specifica, un regime che si estende per circa mezzo secolo, il cui funzionamento è tuttavia degradante, […] a questo declino si cerca di reagire con forzature (pur nelle loro grandi differenze, il fascismo e il berlusconismo) che generano una nuova egemonia e una nuova instabile forma politica (circa ventennale)” (84).
Personalmente trovo più convincente una lettura della storia d’Italia come contrapporsi e alternarsi di due visioni diverse, simboleggiate – vedi caso – dai due discussant di oggi: l’una di chi vuole o “fare gli italiani”, o creare quelli nuovi; l’altra di chi vede il tessuto su cui sono inseriti i vari pezzi che compongono la società italiana e si preoccupa di rafforzarlo, di ricostruire una storia condivisa, o perlomeno accettata dalla maggior parte degli italiani. La prima richiama il nome di Garibaldi, quello storico e quello nel simbolo del Fronte Popolare nelle elezioni del 48; l’altra quelli dei Giolitti e degli Andreotti, ma anche di Moro e, in un qualche senso, perfino di Togliatti.
Condannare una politica per le sue élite, per come i riluttanti sono diventati ributtanti o restati dilettanti, è originale. Condannarla e far tornare la teoria di un doppio ciclo di 50 e 20 anni – “pur nelle loro grandi differenze” – è invece sbagliato. Non esistono fatti ma solo interpretazioni, e tali sono le periodizzazioni: valgono se offrono una spiegazione. Ma se sbatte la testa contro il muro, anche l’ermeneuta si fa male. E qui il muro è che Berlusconi è stato battuto due volte. L’antiberlusconismo, dopo aver fatto danni alla sinistra politica, li fa anche alla sinistra storiografica. Con Berlusconi non si può dire che ha vinto perché non è stato promulgato lo stato d’assedio, o perché ha preso un terzo dei voti alle elezioni, e agguantato il potere si è fatto totalitarismo: Berlusconi in un periodo durato 14 anni ha vinto le elezioni 3 volte, alternandosi con Prodi. Ma Berlusconi è citato in 23 pagine, mentre Prodi neppure compare nell’indice dei nomi. Compare, e in modo spregiativo, Reagan, mentre neppure sono nominati né Blair, che senza la Thatcher non sarebbe esistito, e neppure lo Schroeder delle riforme Hartz. La domanda che ci si dovrebbe porre, e tanto più quanto più si trova Berlusconi esecrando, è: perché è successo? Non porsela non giova al politologo, e pazienza; danneggia il PD che, mentre la destra è allo sfacelo, non arriva al 20%, e peggio per lui. Ma danneggia anche il Paese: e questo è peggio per noi.
Ieri l’IBL ha presentato un libro che si intitola “Sudditi”. Parla di uno stato che oggi preleva il 58% del reddito, che mantiene un’amministrazione pubblica ottusa e pesantissima, che si arroga il diritto di ingerirsi dei nostri fatti personali. Gli italiani, prima confusamente lo percepiscono, poi se ne convincono, e seguono chi gli fa credere che si può cambiare. Chi usa l’antiberlusconismo come chiave esplicativa non riesce a vedere questa realtà, non pensa che questo sia il vero problema, bensì che tutto si risolva levando Berlusconi di mezzo. E subito viene Caserta.
Il libro parla di élite. E allora parliamo di élite. Con un po’ di prudenza, però: perché quando si parla di insiemi e di appartenenza, c’è sempre in agguato la battuta dell’altro Marx sui club, o il paradosso di Russell sulla classe di tutte le classi che non contengono se stesse come elementi. “Nell’età berlusconiana le élite non vogliono più sobbarcarsi il peso della libertà creatrice e del rigore disciplinato [….]questo cinismo delle élite è uno dei volti della loro riluttanza, e comporta la corrosione dello spazio pubblico, del dominio dei dialetti nel discorso politico, ed è, naturalmente, anche la fine della morale delle élite” (110-111). Galli lo dice pensando se stesso come élite; noi che oggi ne discutiamo, ci pensiamo élite. E tra di voi ci sono anch’io.
Signori, io esisto. Sum, ergo nego. Non era ovvio che uno come me si candidasse nel 1994 con i Progressisti, nel 1996 con l’Ulivo, e nel 2001 con l’Unione. Non era ovvio che la mia candidatura venisse sostenuta da un lungo elenco di nomi della borghesia, intellettuali e industriali. Non è rispettoso della realtà ignorare che esistono, nelle élite politiche, in quelle sociali ed in quelle imprenditoriali, parti non trascurabili, né per entità numerica né per acutezza di pensiero, a cui in nessun modo può essere attribuita la qualifica di riluttanti, né nel significato proprio né in quello traslato che l’autore dà alla parola. E’ sbagliato per la completezza storica, è sbagliato per il Paese ignorare che esiste un pensiero liberale che lentamente, faticosamente si fa strada. Se si guarda indietro di strada ne ha fatta più di quanto si pensa. Questo pensiero è stato danneggiato, forse più che dallo pseudo-liberalismo di Berlusconi, dai campioni dell’antiberlusconismo, dalle “ultra-élite morali e intellettuali” (87), dagli autoproclamatisi detentori della “bella politica”, dai moralisti e dai virtuisti. La vicenda “politicamente fallimentare del Partito d’Azione” dovrebbe aver mostrato che “ il tempo dell’immediato successo politico era concluso”.
Invece, come anche si vede nelle polemiche di questi giorni, è tutt’altro che tramontato.
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giugno 7, 2012