È solo la punta dell’iceberg il problema della liquidità, quando si parla di finanziamenti alle Pmi. C’è anche la difficoltà nel trasmettere all’eurozona la politica monetaria della Bce: tant’è che il tema era nell’agenda della riunione di giovedì dei 23 membri del board della Banca centrale. Ci sono le difficoltà delle aziende, e non solo quelle e specifiche di quelle italiane: tant’è che ne parlava la Frankfurter Allgemeine Zeitung del 16 Maggio in uno “speciale” di 8 pagine dedicato alle difficoltà che sta incontrando il Mittelstand, colonna portante del sistema industriale tedesco. Chi guarda solo alla punta dell’iceberg, considera il finanziamento alla stregua della cassa integrazione, cioè uno strumento per sopravvivere. Chi pensa al ghiaccio che sta sott’acqua, guarda alla crisi in un modo diverso: invece di essere ansioso su “come fare” per arrivare alla fine della crisi, è preoccupato di “come essere” quando inizierà la ripresa. You never let a serious crisis go to waste, per citare Rahm Emanuel.
“Come essere” azienda: l’attuale crisi da domanda amplifica una crisi da competitività, risultato di 15 anni in cui la nostra produttività è cresciuta meno di quella della maggior parte dei paesi europei. C’entra la produttività totale dei fattori, ma c’entra anche la produttività propria dell’impresa: non la si aumenta restando uguali a se stessi, magari solo un po’ più piccoli: ma cambiando assetti produttivi, commerciali, proprietari.
“Come essere” finanziati: oggi il credito alle imprese è quasi tutto intermediato dalle banche, e quindi risente di quello che, nella crisi del debito, viene richiesto alle banche da parte dei regolatori nazionali ed europei, vale a dire migliorare i requisiti patrimoniali, e aumentare le riserve su crediti che la crisi inevitabilmente finisce per deteriorare (e fare la loro parte nel finanziamenteo dei debiti sovrani). Nello schema di finanziamento alle Pmi proposto in un precedente articolo (Fondi in concorrenza per le Pmi, il Sole 24 Ore del 20 Aprile) alle banche veniva assegnato un compito centrale, pensando di sfruttare la loro capacità e credibilità nel valutare il merito di credito delle imprese. Oggi credo che la proposta debba essere più netta: bisogna puntare sulla creazione di un meccanismo interamente alternativo al credito bancario. Solo così si superano i vincoli, quelli posti dal regolatore, e quelli che derivano dalla radicata cultura bancaria.
Il mondo oggi è inondato da liquidità alla ricerca di rendimenti, pare li si vada a cercare persino nelle obbligazioni del Burundi. Prestare danaro alle Pmi della zona più ricca del mondo dovrebbe essere una proposta più allettante: a patto di disporre di una corretta e credibile valutazione del rischio. Davvero le banche sanno farla meglio e con meno costi? L’abitudine al multiaffidamento riduce il loro interesse a mantenere in casa competenze analitiche, che quindi sono vittime delle ristrutturazioni. I dati presso la centrale rischi di Bankitalia sono comunque sempre accessibili alle aziende che quindi li possono esibire. I fondi di venture capital e di private equity hanno dimostrato che è possibile valutare il merito di credito a costi ragionevoli.
E, cosa fondamentale, usando criteri di valutazione diversi, propri di culture diverse: in questo modo la valutazione stessa trasmette all’azienda stimoli al cambiamento. I fondi di private equity e di venture capital sanno che il collateral é necessario, ma che per uscire dalle difficoltà bisogna cambiare, prodotti, clienti, organizzazione, governance; sanno che la vera protezione dal rischio è una buona strategia.
A differenza dello schema precedente, ora protagonisti sono fondi dedicati: il loro mestiere sarà quello di prestare danaro a Pmi europee, il loro capitale sarà sottoscritto da investitori istituzionali. Solo danaro privato: quello pubblico o parapubblico desterebbe il sospetto che si perseguano fini diversi da quello di guadagnare prestando danaro, oppure susciterebbe l’attesa di implicite garanzie. Il fondo esegue la due diligence, eroga crediti, li cartolarizza e li vende al dettaglio, mantenendo come skin in the game una quota (10-20%) junior rispetto ai crediti cartolarizzati, coperta dal capitale proprio del fondo.
I fondi potrebbero essere specializzati per tipo di attività delle imprese a cui prestano, per la loro localizzazione, regionale e nazionale.
L’ipotesi, da verificare, è che con un costo del debito accettabile per le Imprese si riesca a remunerare gli acquirenti dei crediti cartolarizzati e gli azionisti del fondo, una volta pagati i costi di gestione e le spese di valutazione. Bisognerà definire le forme di controllo per fondi che fanno prestiti a fronte del proprio equity.
Questi fondi per ora non esistono. Ma neppure mai sono esistite le condizioni perché essi nascessero: un fiume di danaro alla ricerca di rendimento; la difficoltà delle banche di assolvere a quello che è sempre stato un compito di fatto esclusivo; i guadagni di competitività possibili usando la necessità di finanziarsi come stimolo al cambiamento strutturale delle aziende. Riuscire a farli nascere sarebbe anch’esso un modo di “non sprecare la crisi”.
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Fondi in concorrenza per le Pmi
di Franco Debenedetti – Il Sole 24 Ore, 20 aprile 2013
maggio 26, 2013