I dieci comandamenti dell’ecologia italiana

giugno 13, 2019



I DIECI COMANDAMENTI DELL’ECOLOGIA ITALIANA
a cura di Carlo Cottarelli e Alessandro De Nicola
Rubbettino, 2019

INDICE

Prefazione di Lorenzo Infantino

Introduzione di Carlo Cottarelli e Alessandro De Nicola

Carlo Cottarelli
PRIMO COMANDAMENTO
Spendi meno e, soprattutto, spendi meglio

Dario Stevanato
SECONDO COMANDAMENTO
Riforma l’Irpef

Giuliano Cazzola
TERZO COMANDAMENTO
Pensioni: Non santificare troppe feste

Paolo Belardinelli e Alberto Mingardi
QUARTO COMANDAMENTO
(Stato) medico, cura te stesso

Franco Debenedetti
QUINTO COMANDAMENTO
Per un’ecologia dei social media

Alessandro De Nicola
SESTO COMANDAMENTO
Non adorare il Vitello d’oro: la strana idolatria italiana dello Stato imprenditore

Marco Ponti e Francesco Ramella
SETTIMO COMANDAMENTO
Trasporti: tassa e spendi meno. Puoi e devi

Carlo Scarpa
OTTAVO COMANDAMENTO
Rendi l’università più efficiente

Simona Benedettini e Carlo Stagnaro
NONO COMANDAMENTO
Non desiderare la rendita d’altri

Giuseppe Lusignani e Marco Onado
DECIMO COMANDAMENTO
Ricorda di trasformare banche e finanza dopo la crisi

Note

Gli autori


Per un’ecologia dei social media

di Franco Debenedetti

Come cambiano norme e valori, su cui si giocano sfide legali ed economiche. Una “storia critica” delle grandi piattaforme del web e delle relazioni sociali nella cultura della connettività.

Son troppo grosse; sono dei monopoli; vendendo i nostri dati guadagnano in modo esorbitante, accumulano ricchezze e non pagano tasse; minacciano la democrazia; alterano le personalità. Sono i più ricorrenti tra gli addebiti che si fanno e le accuse che si muovono ai social media. Le poste attive, se si trattasse di un bilancio, gli argomenti della difesa, se si trattasse di un processo, sono il miliardo e passa di persone per cui quei media sono diventati parte costituente del loro essere sociali. Per evitare il bloccarsi polemico di sterili contrapposizioni è necessario capire come i social media hanno formato la struttura online sulla quale la gente organizza le proprie vite; per capire le tensioni nell’ecosistema in cui operano le grandi piattaforme e gruppi sempre più vasti di persone, ci vuole una storia critica della crescita dei social media. È quella che ci propone José Van Dijck, nella sua «cultura della connettività»: connective media è il nome che propone al posto di quello di social media, dato che il loro essere social è il risultato di un input umano che diventa output digitale e viceversa, in un costrutto socio-tecnologico di cui è difficile separare i componenti.

Bisogna andare alle origini: nei primi anni ’70 i computer e le tecnologie dell’informazione godevano della dubbia reputazione di essere strumento di controllo di governi orwelliani o delle multinazionali. La controcultura della fine degli anni ’60 univa valori di comunità e collettività con quelli di libertà e potere personali, in aperto contrasto con quelli di oppressione associati alla tecnologica informatica.

Questa, solo alla fine degli anni ’70 iniziò a essere vista come strumento di potenziale liberazione, nel 1984 l’utente di Macintosh faceva parte della controcultura. Il World wide web nel 1991 diede un nuovo impulso ai legami tra cultura informatica dei geek e controcultura. Ma l’immagine del geek ribelle che lavora nell’interesse del pubblico e non per quello di Big money o di Big government è il precursore di quella che sarà la cultura del web. Sviluppatori commerciali come Google e Amazon incorporarono il web 1.0 e quasi nel volgere di una notte sostituirono dot communism con dot commercialism. Lo spirito egualitario si riaccese con il web 2.0: la sua intrinseca capacità di comunicazione a due vie faceva dei media online uno strumento infinitamente più democratico dei vecchi media. Il colmo dell’euforia fu il 2006 quando «Time» mise “you” come persona dell’anno, proclamando il potere rivoluzionario degli utenti connessi. Quattro anni dopo, fu Mark Zuckerberg l’uomo dell’anno: che promise di voler fare un mondo più aperto e più trasparente; le aziende adottarono retoriche che allineassero l’ethos benevolo delle prime tecnologie con il proprio ethos aziendale. Facebook «vuole che la gente trovi quello che vuole, la vuole connettere online alle idee che gli piacciono»; il mantra di Google è do no evil. I social media possono essere visti come facilitatori e potenziatori di reti umane, di persone che promuovono la connettività come valore sociale. Ma i social media sono inevitabilmente sistemi automatici che realizzano e manipolano le connessioni. Il significato di “social” comprende sia la connettibilità (umana) sia la connettività (automatizzata), o, se si preferisce, sia “l’essere connesso” sia il “connettere”: una deliberata ambiguità che è al centro di tutta la “storia critica” di van Dijck. Le aziende enfatizzano la prima e minimizzano la seconda, sostengono di «rendere asociale il web», in realtà rendono tecnici i rapporti sociali, rendono formali, gestibili, manipolabili le attività delle persone. Nel contesto dei social media la parola “amici” indica sia contatti intimi sia estranei totali; il nome follower connota gruppi neutrali o di ammiratori: il significato di entrambe le parole si riduce, nel contesto dei social media, al numero di chi rilancia i vostri tweet; la connettività è un valore quantificabile, il principio di popolarità. Anche i like non sono giudizi di valore attribuiti a persone, cose o idee, ma il risultato di un calcolo algoritmico di click istantanei su un bottone. Parole chiave usate per descrivere il modo di funzionare dei media, come “sociale”, “collaborazione”, “amici” ricordano le antiche visioni del web come promotore di attività sociali. In realtà a dar significato di questi nomi sono tecnologie automatiche che dirigono rapporti sociali degli uomini.

La promessa di Mark Zuckerberg di «fare il web più sociale» è intrecciata con il professato desiderio di «fare il mondo più trasparente»: questo implica che se gli utenti offrono la loro identità quando condividono dati personali, le piattaforme per parte loro condividono un’etica di trasparenza e apertura.

Dal 2000 al 2005 le piattaforme prosperarono con l’entusiasmo degli utenti, erano spazi alternativi, liberi dai vincoli di aziende e governi. Fu quando la base degli utenti esplose dopo il 2005, che gli investimenti necessari divennero troppo grandi, e le piattaforme divennero aziende perdendo lo spirito di produzione autonoma non di mercato. Negli anni seguenti, dal 2005 al 2008 i proprietari delle piattaforme furono cauti nel dichiarare alle comunità degli utenti i loro obbiettivi di guadagno. La cultura del venture capital della Silicon Valley spingeva per la crescita del fatturato con l’obbiettivo di andare al più presto in borsa; la retorica accademica esaltava il nuovo spazio pubblico di una collaborazione non di mercato. I manager presero il modello innovativo di Wikipedia, di produzione interna da parte degli utenti, e la inserirono nella struttura di governance aziendale for profit.

È proprio mercificando le relazioni – trasformando la connettibilità in connettività per mezzo della tecnologia di codificazione – che le piattaforme, in particolare Google e Amazon, scoprirono le uova d’oro che le loro galline producevano. Oltre a generare contenuto, la produzione da parte degli utenti genera un by-product che essi forniscono sovente senza volerlo, dati e profili comportamentali: sotto la maschera della connettibilità essi producono connettività, termine tecnico che nel contesto dei social media presto si connotò come accumulazione di capitale sociale da parte degli utenti, mentre di fatto era l’accumulazione di capitale economico da parte delle aziende. La maggior parte delle piattaforme sono operate da aziende per cui internet è prima di tutto un mercato e poi un nuovo spazio pubblico: mantenendo viva tuttavia la retorica di una nuova sfera pubblica, di una fusione tra principi non di mercato e di for profit, in cui sopravvive lo spirito del collettivismo.

Ci sono dunque da un lato utenti entusiasti delle nuove potenzialità del web 2.0, e scienziati sociali per cui i social media sono un interessante esperimento di fusione delle sfere privata e pubblica, dove l’imprecisione dei confini apre nuove possibilità di formazione dell’identità. E dall’altro lato due tipi di detrattori: quelli per cui questo è un esperimento fallito di partecipazione democratica, perché le piattaforme commerciali hanno barattato la perdita della privacy con l’accumulazione di capitale sociale; e quelli per cui gli utenti sono doppiamente sfruttati, come lavoratori che forniscono i contenuti e come consumatori che sono obbligati a ricomprarsi i propri dati elaborati dalle piattaforme, perdendo la privacy. Il quadro risultante è quello di vittime contro persecutori, di impotenti verso potenti. È ovvio che i social media possono potenziare e sfruttare; ovvio che l’utente sviluppa i propri rapporti sociali attraverso piattaforme commerciali che ricavano guadagni monetari dalle loro attività online. Dipende dagli interessi degli utenti: uno spettro troppo ampio che richiede un trattamento delle relazioni sociali più complesso che non la descrizione della contrapposizione.

1. Norme e tecnologia: una coevoluzione

Van Dijck non si propone di discutere di privacy o di mercificazione in sé. Il focus del suo libro è migliorare la comprensione storica dell’effetto dei social media sulla vita quotidiana, comprendere la coevoluzione delle piattaforme dei social media, e delle relazioni sociali nella cultura della connettività, esporre come cambiano le norme e i valori su cui si giocano queste sfide legali ed economiche, nonché le strutture tecnologiche, ideologiche, socioeconomiche di questa scommessa.

Privacy e commercializzazione sono emblematiche di una più ampia battaglia per il controllo dell’informazione privata e pubblica. Chi può possedere i dati di profilatura comportamentale di un altro? Chi è autorizzato a interpretare, aggregare e vendere le informazioni che derivano da dati personali? In che modo le varie piattaforme infiltrano le abitudini comunicative e creative, che potere di foggiare i rapporti sociali online hanno utenti e aziende? In meno di un decennio le norme di tali rapporti sono cambiate drasticamente, e continuano a cambiare. Ad esempio le norme per condividere informazioni private e per accettare pubblicità personalizzate nel proprio spazio sociale erano molto differenti nel 2005, negli stadi iniziali del web 2.0, o nel 2012. Sono questi i cambiamenti a cui è interessato l’autore: le specifiche piattaforme su cui hanno luogo e come influenzano i rapporti sociali in quanto tali. La normalizzazione avviene in modo evidente quando cambiano le caratteristiche tecnologiche o le modalità d’uso, oppure in modo graduale, impercettibile attraverso la trasformazione delle nostre abitudini e dei nostri livelli di accettabilità. Van Dijck non è interessata a vedere come Facebook ha violato le leggi sulla privacy o come le trasgressioni legali di Google sono correlate ai suoi schemi finanziari: suo scopo è tracciare le definizioni di che cosa conta come privato o pubblico, formale o informale, di collaborazione o sfruttamento, temi che sono parte di un’opposizione tra le tattiche degli utenti e le strategie delle piattaforme.

L’utilità esplicativa della cultura della connettività è di aiutarci a capire l’espansione storica dei social media, le discussioni sorte e i cambiamenti normativi. È una cultura dominata dalle tecnologie di codificazione: nello spazio online, non sono semplicemente resi tecnologici i rapporti sociali, al contrario sono le strutture codificate ad alterare profondamente la natura delle nostre connessioni, creazioni, interazioni. I segni che ci impongono di share o di follow come valori sociali, hanno effetti sulle pratiche culturali come sulle dispute legali. In secondo luogo, questa è una cultura dove l’organizzazione degli scambi sociali si fonda sui principi delle economie neoliberali. La connettività deriva da una pressione continua, degli utenti e delle tecnologie, a espandersi attraverso la concorrenza e a guadagnare potere attraverso alleanze strategiche. Le tattiche delle piattaforme, il principio di popolarità, il meccanismo del ranking sono radicate in una cultura che esalta la gerarchia, la competizione, la mentalità del winner-takes-all. L’indebolirsi del settore pubblico e il subentrare delle aziende sono il presupposto necessario per capire la velocità di crescita dei mezzi connettivi. Storicamente neoliberismo e socialdemocrazie si contrappongono su questioni di libertà di individui e di aziende a fronte delle responsabilità delle comunità e degli stati: le richieste dei proprietari di piattaforme di maggiore trasparenza e apertura sono radicate in un’agenda neoliberale, sovente accompagnate dalla domanda di una riduzione del settore pubblico.

1.1 Microsistemi ed ecosistema

Per comprendere l’evoluzione delle relazioni sociali online non basta studiare le singole piattaforme: bisogna capirne la coevoluzione, considerando le singole piattaforme come microsistemi nell’ecosistema dei connective media.

Quando Steve Jobs introduce iTunes nel gennaio 2001 pensa a qualcosa di più che un software che faccia di un computer un hub digitale; con l’iPod, otto mesi dopo, nasce un nuovo modo di ascoltare musica registrata. Con l’insieme di hw e sw Apple crea una nuova forma culturale, la prima dopo l’lp: poiché favorisce le compilazioni personali, la modalità di ascolto preferita diventa il singolo brano. Lo sviluppo della tecnologia – hw, sw, design – produce una trasformazione dell’industria musicale: nasce un nuovo modello di business.

L’esempio dimostra come lo sviluppo di nuove tecnologie sia inseparabile dall’emergere di modi di uso. Se Apple non avesse adottato un nuovo business model, quello di un negozio digitale, iTunes e iPad sarebbero stati un fallimento. Mentre sviluppa la sua tecnologia, Apple innesca un cambiamento delle condizioni legali ed economiche della produzione e distribuzione di musica, con effetti su altri mezzi connettivi, l’editoria, la televisione, le news.

Per comprendere come le piattaforme si siano sviluppate indipendentemente, come siano diventate forze centrali nella costruzione delle relazioni sociali, bisogna esaminare da entomologo le strutture delle singole piattaforme, individuare somiglianze e differenze nel loro modo di operare, e come aziende e utenti hanno plasmato e sono stati plasmati da questa costruzione.

Per farlo, Van Dijck si dota di uno strumento “anatomico”: dapprima smonta ogni piattaforma, nel suo doppio livello, di costrutto tecno-culturale e di struttura socioeconomica, e analizza le componenti costitutive di ogni livello: tecnologie, utenti, contenuti per il livello tecno-culturale, forme proprietarie, di governance, di modelli di business per quello socioeconomico. Alla fine ricompone l’ecosistema per riconoscere le norme e i meccanismi che consentono la costruzione di relazioni sociali. È a quel livello di dettaglio, a cui brevemente si accenna, che si trovano le differenze tra le piattaforme.

2. Piattaforme come costrutti tecnoculturali

2.1 Tecnologie

Tecnologicamente le piattaforme forniscono il sw che codifica le attività sociali in linguaggio di computer e viceversa traducono il linguaggio del computer in azioni sociali. Ad esempio Amazon codifica le preferenze di gusto e le abitudini e Linkedin codifica le connessioni tra chi cerca e chi offre lavoro: entrambe traducono attività sociali in direttive per indirizzare i comportamenti. Dal punto di vista sociale e politico, (meta)data, algoritmo, protocollo, interfaccia, default, hanno in comune il significato di portarci dal regno della tecnologia in quello sociale e culturale.

I metadati sono fonte di battaglie legali tra i diritti degli utenti e quelli dei proprietari delle piattaforme: ad esempio Linkedin può vendere dati (in)volontariamente forniti dai loro membri? Twitter raccoglie automaticamente dati su posizione e tempo: è autorizzata a usarli per tracciare le posizioni dei suoi utenti, per esempio per dare informazioni alle forze dell’ordine? E gli utenti di Facebook, che cosa possono sulla profilatura di dati che la piattaforma richiede a tutti di rendere pubblici?

Oltre a raccogliere (meta)dati le piattaforme hanno il potere di includere algoritmi per trattarli. Ad esempio la famosa frase di Amazon «chi ha comperato questo oggetto ha anche acquistato…» è il risultato automatico di algoritmi che aggregano milioni di dati per calcolare le relazioni tra gusti e preferenze di acquisto. Di più: l’analisi delle transazioni può tradursi in una tattica commerciale. I protocolli si nascondono dietro interfacce: quelle visibili di solito hanno feature tecniche (pulsanti, stelle, icone) che guidano attivamente le connessioni tra utenti e contenuti. Inoltre le interfacce sono caratterizzate da default, setting automatici che guidano il comportamento degli utenti: ad esempio quello di Facebook per cui un messaggio, by default, può essere distribuito a tutti e non solo agli amici. Nel loro insieme formano una sorta di “inconscio tecnologico”: è vero che algoritmo, protocolli e default modellano l’esperienza culturale di chi usa le piattaforme dei social media, sovente non essendo adeguatamente informati, ma mai essendo inconsci babbei tecnologici.

2.2 Uso e utenti

Le piattaforme dei social media stimolano la partecipazione attiva e l’impegno civile oppure collettività è diventato sinonimo di connettività automatica? I rapporti sociali online sono sempre più una coproduzione di umani e di macchine, le “risposte” degli utenti dimostrano come le piattaforme dei social media coevolvono con i rapporti sociali nel contesto di una crescente connettività. Le reazioni si manifestano cambiando le impostazioni dei default, oppure hackerando il sito, o cambiando piattaforma. Reazioni esplicite sono frequenti quando piattaforme nate come comunità di utenti cambiano tipo di proprietà, strategie di monetizzazione, termini d’uso.

2.3 Contenuti

Tra il 2000 e il 2005 i siti basati su user-generated content, come YouTube, Flickr, Myspace diedero i propellenti per la produzione e distribuzione di contenuti multimodali. Utenti e proprietari hanno interesse comune a che nelle arterie dell’ecosistema circolino “buoni contenuti”, ma poi i loro interessi divergono. Gli utenti preferiscono formati multipli, le piattaforme vogliono formati uniformi. Facebook limita la lunghezza dei video caricati, Twitter quella dei testi a 280 caratteri, Linkedin impone il formato del curriculum. Un certo grado di standardizzazione facilita la connettibilità – aiuta gli utenti a trovare il contenuto – ma aumentano anche la connettività: gli algoritmi elaborano meglio se l’input è uniforme.

2.4 Proprietà

La proprietà di una piattaforma è un elemento costitutivo del suo modo di funzionare come un mezzo di produzione. Essa è cambiata nel tempo passando dal non profit alla proprietà collettiva, a organizzazioni di utenti for profit, a imprese di un proprietario. Facebook e Twitter sono start-up diventate imprese globali. Un’impresa quotata deve cedere potere agli investitori sovente a danno degli utenti che lamentano la pressione per aumentare la profittabilità dell’impresa. Nuove start-up nascono tutti i giorni, e quelle di successo vengono vendute.

Nel caso di Google l’integrazione verticale di motori di ricerca, sistemi operativi, browser, sistemi di pubblicità online, content provider che garantiscano un maggiore controllo sulla user-experience e quindi sui dati degli utenti. Facebok invece fa partnership con il sito di streaming musicale Spotify, con il servizio di chat di WhatsApp per assicurare una user-experience continua. Ancora 10 anni fa codificare comportamenti sociali con algoritmi proprietari, per non parlare di brevettarli, sarebbe stato impensabile. Oggi Google, Facebook, Amazon e Twitter possiedono algoritmi che vieppiù determinano cosa ci piace, cosa desideriamo, conosciamo e troviamo. Le battaglie sulla proprietà di hw e sw sono al cuore di battaglie molto più profonde su che cosa sia lo spazio pubblico, non profit o aziendale, specialmente ora che le distinzioni tra questi spazi sono oggetto di contese ideologiche.

2.5 Governance di protocolli

Per analizzare la struttura di governance del sito di un social media, bisogna capire come, attraverso quali meccanismi si controllano le comunicazioni e il traffico di dati. I sistemi di controllo dei contenuti consistono di protocolli tecnici e sociali, per gestire le attività degli utenti. Regole esplicite nel campo della proprietà, della privacy, del comportamento sono codificati nella End user licence agreement (eula) e nei Terms of service (tos), relazione contrattuale che si stabilisce ogni volta che un utente si connette a una piattaforma. Riguardano campi come i diritti di proprietà, di privacy e di sanzioni che sono regolati dalla legge, ma non sono essi stessi legge, sono un’area grigia. Come si esercita il controllo? Come le norme sono inscritte nei tos? La politica della privacy di Facebook è più lunga e complicata della costituzione degli Stati Uniti.

Gli utenti si accorgono dei cambiamenti di governance attraverso cambiamenti della user interface, a volta senza formale notificazione. I cambi di governance sono quindi intimamente legati alla tecnologia, all’azione degli utenti, al contenuto. Il controllo dei tos è principalmente nelle mani dei proprietari.

2.6 Business model

Nel corso degli ultimi dieci anni nell’industria culturale l’enfasi è passata dai prodotti ai servizi. Nel secolo scorso aveva vissuto con la produzione di massa di beni standard, vendendo o beni riprodotti o abbonamenti a programmi o pubblicità inserita in contenuti culturali. Col web 2.0 i prodotti diventano virtuali e il download non rientra nella idea convenzionale di prodotto, salvo poi diventare più tangibile e vendibile con l’arrivo dello streaming. Più problematico un business model basato sulle sottoscrizioni, che fa a pugni con una cultura basata sulla partecipazione degli utenti e abituata alla gratuità dei contenuti e dei servizi. I social media devono trovare un delicato equilibrio tra la fiducia degli utenti e le intenzioni di monetizzazione dei proprietari. La gratuità c’è nell’economia dell’attenzione, su cui si reggono gli emittenti tradizionali, ma non si applica a un mondo popolato da “amici”. Le tecnologie che impediscono le pubblicità di massa hanno consentito lo sviluppo della personalizzazione automatica. Annunci mirati sul lato dello schermo diventarono presto popolari, ma non sono una grande innovazione; molto più efficace la raccomandazione personale di un “amico” di un influencer: la cultura della pubblicità diventa cultura della raccomandazione. Le norme di quanta pubblicità sia tollerata dagli utenti si estendono a comprendere nuove tattiche. Ma anche i clienti ne sono ben consci e decidono se utilizzarle in base a quanto beneficio ne traggono.

2.7 Connettere piattaforme, ricomporre i rapporti sociali

Il potere esplicativo del modello scelto per analizzare le piattaforme come microsistemi, due piani e sei elementi costitutivi, non sta tanto nei singoli elementi, ma nella loro connessione: ogni impresa modella le sue piattaforme. È la loro interdipendenza, la loro interoperabilità ciò che caratterizza un ecosistema. Questa si realizza sia sul piano tecnologico – per esempio la presenza di pulsanti di Twitter in piattaforme concorrenti – sia su quello socioeconomico, come concorrenza e collaborazione. Lo scambio reciproco di dati oppure caratteristiche dei codici mutualmente escludentesi hanno influenza sui canali di distribuzione, determinano quali contenuti sono accessibili da chi. Governi e cittadini devono identificare questi modelli nella dinamica globale dei microsistemi quando definiscono le loro politiche e le loro strategie legali.

I codici di computer e i modelli di business riconfigurano le norme sociali; e le norme sociali di converso modificano come operano le reti. Le piattaforme progettano connettibilità e connettività codificando e marchiando le attività sociali, ma questi processi non lasciano intatto nessuno degli agenti coinvolti: gli utenti e i proprietari del 2013 non sono identici a quelli del 2006 o del 2002; i modelli di business e i contenuti si sono trasformati insieme alle politiche di governance e alle interfacce.

Il fenomeno dei social media richiede di essere analizzato da almeno sei prospettive accademiche, information technology, scienze sociali, scienze umane, economia, legge, comunicazione politica.

3. Lezioni di anatomia

Armato del suo modello multistrato, van Dijck si accinge adesso ad applicarlo a cinque piattaforme per smontarle nelle loro multiple dimensioni e poi ricomporle nel contesto del loro ambiente comune e della cultura della connettività in cui sono cresciute.

Perché l’ecosistema dei connective media non è la somma di microsistemi individuali, è una dinamica che modella e che è modellata dalla cultura in senso lato. Questa analisi non è né neutrale né arbitraria, provoca questioni che riguardano l’ideologia e le politiche su cui si regge questo ecosistema. L’indagine della cultura della connettività dovrebbe chiarire e affinare le grandi questioni che riguardano il controllo delle informazioni nella geografia e nelle politiche dello spazio della rete.

I cinque esempi scelti dall’autore sono:

– Facebook e l’imperativo dello sharing;

– Twitter e il paradosso dei follower;

– Flickr tra comunità e commercio;

– YouTube, l’intima connessione tra televisione e condivisione dei video;

– Wikipedia e il principio della neutralità.

Scopo della recensione essendo anche invogliare a comperare e leggere il libro, il recensore spera che chi è giunto fino a questo punto sia rimasto colpito dal potere euristico della interpretazione che van Dijck dà dei social media, tra connettibilità umana e connettività automatica; che sia stuzzicato a vederne l’applicazione ai microsistemi di queste cinque piattaforme; che abbia voglia di sapere “come va a finire” con le tensioni di cui si diceva all’inizio; come procede la normalizzazione dei connective media nella vita quotidiana, tra appropriazione giuliva e resistenza critica, dove per normalizzazione si intende prenderli per scontati come infrastrutture. Ma quali sono le basi culturali e ideologiche di questo ecosistema, quelle che lo fanno così connesso senza soluzioni di continuità? Bisogna ricomporre le storie dei microsistemi e vedere i modi in cui l’ecosistema agisce sui rapporti sociali online: ingabbiando (lock in), recintando (fence off), dissociando (opt out).

3.1 Lock in: la base algoritmica delle relazioni sociali

Il movimentato mondo delle app mostra un intreccio di collaborazione e di competizione: alcune piattaforme cercano di “rinserrare” le app e gli utenti rendendosi incompatibili con quelle dei concorrenti, altre cercano invece di essere presenti su tutte le piattaforme. Essendo presente ovunque coi suoi pulsanti like e share, Facebook ha la prevalenza nel settore delle reti sociali, obbligando gli altri e penetrare in una nicchia diversa. L’algoritmo follow di Twitter gli ha dato la preminenza nel campo dei microblogger. Da Google+ a YouTube a Google Music Store a Google Wallet, in quattro click l’utente va dal suggerimento di un amico a guardarsi un clip a scaricarlo, il cliente è ingabbiato (locked into) nella sequenza di algoritmi predisposta da Google. L’algoritmo sottostante il pulsante like misura il desiderio di una cosa oppure l’affinità di idee: Facebook ha scelto like piuttosto che “importante” perché quando la gente vede che cosa piace ad altri, lo desidera di più. La stessa cosa vale per la funzione follow o ritweet di Twitter o per il meccanismo di ranking di YouTube: le attività sociali sono tutte inestricabilmente legate agli obbiettivi economici in una cultura di suggerimenti “personali” automatizzati.

Gli utenti sanno bene che le piattaforme, alle origini basate sulla interazione egualitaria di persone con gli stessi ideali liberali e democratici, sono ora mosse dalla ricerca del profitto: ma ne traggono anche vantaggio, la capacità di Facebook e Twitter di creare reti globali aumenta l’efficacia delle comunicazioni popolari. Oltre a utenti che sono ingabbiati (locked in) nel flusso dei microsistemi, altri montano proteste quando i siti modificano le interfacce o il tos. Nel corso di dieci anni gli utenti hanno negoziato le loro relazioni con le piattaforme: così c’è stato il fallimento di Beacon in Facebook o la débacle di Flickr quando ha cercato di inserire Commons. Questo processo di negoziazione comporta una ridefinizione di norme e di valori, quali quello di connettibilità e di comunità. L’attuale dominanza di alcune piattaforme nell’ecosistema è dopo tutto precaria: come hanno lasciato Myspace e Flickr, potrebbero lasciare Facebook o YouTube. Follower ingenui possono diventare critici dissenzienti, che alzano la loro voce con blog individuali o con altre forme di partecipazione.

Il contenuto, alle origini, doveva essere libero da vincoli culturali e da condizionamenti economici, quindi gratuito. In seguito utenti e proprietari della piattaforma presero a valutare diversamente i contenuti: i primi come qualcosa che doveva essere creato e condiviso, i secondi come qualcosa che doveva essere gestito e sfruttato. Gli utenti interessati alla qualità, i proprietari al volume del traffico. Il contenuto è l’esca per attirare utenti che desiderano discutere e condividere musica, video, idee, testi. Alcuni sostengono che così gli utenti sono chiusi in una bolla cognitiva, un determinismo informativo per cui il nostro passato definisce il nostro futuro. Ingabbiati nel flusso, gli utenti tendono a cliccare il contenuto preselezionato dalla piattaforma e confermato dai click degli amici.

Poiché sentimenti ed emozioni forti sono condivisi più facilmente che contenuti importanti ma complessi, questi vengono filtrati dalla bolla. Il contenuto di per sé non ha valore, è la combinazione di contenuti, metadati, profilatura dei comportamenti che rende la risorsa della connettività interessante per gli analisti e il marketing. I dati raccolti dai social media sono la risorsa grezza del data mining. Questa si basa non solo sulla rozza idea che il comportamento online riflette la condotta sociale offline, ma sul fatto che le libere comunicazioni online possono essere aggregate e interpretate. La definizione che del contenuto danno gli utenti, espressione online di creatività comunicativa, è allineata con quella del proprietario della piattaforma, per cui è qualcosa che va gestito e manipolato. È l’analogo di come connettibilità e connettività si fondono nel modellare i rapporti sociali online: che la gente faccia connessioni e costruisca comunità è il pretesto per manipolare e monetizzare i social data.

Nell’ecosistema dei mezzi connettivi, contenuto e gestione del contenuto sono diventati virtuali sinonimi. Twitter è considerata una piattaforma di sondaggi per misurare in tempo reale i sentimenti e le preferenze dell’elettorato, e allo stesso modo viene utilizzato come strumento di promozione e manipolazione. Gli utenti hanno bisogno della piattaforma per dar voce alle loro opinioni, i proprietari hanno bisogno degli utenti per tradurre le loro espressioni in formati prestabiliti. Il contenuto è spontaneo e controllato, non mediato e manipolato.

3.2 Fence off: integrazione verticale e interoperabilità

Facebook fa un accordo con Skype dopo che Microsoft l’aveva comperata; compera Instagram e WhatsApp, dopo avere stretto alleanze con Zyngas, Netflix, Spotify, Rhapsody, Ticketmaster. Google con Play, YouTube, Doubleclick, AdWords, Picasa, Chrome, Cloud, Maps, Scholar si è allargata praticamente in ogni tipo di piattaforma, in ogni tipo di nicchia, sociale, informatica, creativa, commerciale. Si sono dunque create poche grandi catene di piattaforme, microsistemi verticalmente integrati per mezzo di costruzioni proprietarie, azionarie, di partnership, che ora dominano l’ecosistema dei media connettivi: Google, Facebook, Apple e Amazon. La catena che fa capo a Google ha sviluppato partnership con Twitter, Wikipedia, Android. L’altra fa capo a Facebook, con Microsoft e Instagram (aveva anche Flickr e Motorola). Entrambe cercano di controllare tutte le entrate nell’ecosistema, attirando gli utenti sulle proprie piattaforme. Google vuole essere la porta per l’universo online, Facebook il “passaporto per internet”.

Domanda: così facendo cercano di eliminare la concorrenza, recintando il campo dei rapporti sociali online? La questione ha una risposta economica e una politica. Quanto alla prima, Google vuole che lo strato sociale del web rimanga aperto in modo che i suoi motori di ricerca possano infilarsi in ogni tipo di contenuto, indipendentemente da dove è stato prodotto.

Facebook nega l’accesso alle sue pagine, perché vuole essere il provider di altri servizi. Quindi Google si presenta come la naturale estensione del web neutrale, perché ha interesse nell’apertura per i suoi motori di ricerca e per i suoi pubblicitari che vogliono raggiungere i clienti. Con una crescente parte del territorio recintato da Facebook e Apple, Google vede diminuire la risorse a cui ha accesso per il suo mining.

Dal punto di vista politico, è emerso un generale processo di verticalizzazione che negli anni ha reso meno netti i confini tra ricerca, network sociali, intrattenimento, commercio. In sostanza il processo di promuovere rapporti sociali online è nelle mani di tre (quattro se si conta Amazon) grandi gruppi che hanno gli stessi principi operativi, ma differiscono per principi ideologici (aperto contro chiuso). Non c’è dubbio che il non profit e il settore pubblico sono mal serviti nei chiusi giardini dell’Eden, Wikipedia rappresenta la piccola parte del territorio non profit che può essere esplorata, ma anche quella è intimamente collegata alle catene verticali. Wikipedia si avvantaggia dalla massima connettibilità a Google, mentre Google ci guadagna a raccogliere i metadata di Wikipedia, dato che la connettività non ha valore per l’enciclopedia gratuita.

L’ecosistema dei mezzi connettivi non ha uno spazio separato per piattaforme non profit o pubbliche, separate dallo spazio commerciale. Rapporti sociali, creatività, conoscenza sono tutti intrecciati nel tessuto dell’ecosistema, le aziende sono state svelte a adottare servizi che appartenevano alla sfera pubblica, si pensi a Google Scholar, Googe Books, Google Library Links. Nei decenni passati un numero crescente di servizi pubblici è stato outsourced al settore privato, forniture elettriche, musei, prigioni, formazione, gestione dei rifiuti: estenderlo ai rapporti sociali, alla creatività, alla conoscenza continua una tendenza radicata negli ideali neoliberisti di libero mercato e deregolamentazione.

Utility nel contesto di Google e Facebook non significa più pubblico e neutrale, ma onnipresente e inevitabile. Sono Google e Twitter a presentarsi come guardiani della neutralità e di un internet aperto, mettono in guardia dalla sovraregolamentazione del settore tecnologico, freno all’innovazione e agli investimenti. Ma chi regola il territorio dei media connettivi? La questione delle piattaforme che “recintano i giardini”, dentro i clienti, fuori i concorrenti, è infine una questione di controllo dei dati e dei contenuti dei clienti. Privacy degli utenti, proprietà dei dati, questioni del copyright sono regolate dalle piattaforme nei loro tos, regole che possono cambiare e che non hanno validità al di là della piattaforma stessa. Ma che cosa deve essere regolato se gli utenti scelgono la comodità dei servizi della piattaforma a spese del controllo sui loro dati privati? La Commissione europea e la Federal trade commission hanno preso il problema della dominanza di Google come un problema antitrust. Ma la chiave della regolazione sta nei segreti tecnologici che sono al di fuori dei poteri del regolatore.

Analogo problema presenta la difesa degli interessi privati contro il potere delle aziende nel campo dei social media.

Le politiche di privacy delle singole piattaforme presentano problemi generali: i tos sono sovente difficili da capire, sono modificabili da parte delle aziende, e modificare i setting di default sovente richiede notevoli competenze tecniche. Problemi che oggi vengono affrontati a livello dei singoli microsistemi e non dell’ecosistema nel suo complesso.

Fin dall’inizio, centrale al modello di business dell’ecosistema che si andava formando fu la nozione di libero, nei suoi diversi significati: contenuto generato gratis dagli utenti, distribuito gratis dalle piattaforme, incontaminato dagli interessi dei media tradizionali, del commercio, del governo.

Gli utenti erano affascinati dal concetto della reciprocità tra servizi e user-generated content, e questo li rendeva ostili a pagare in qualsiasi forma. Quando i collettivi furono rimpiazzati dalle aziende, “libero” significò qualcosa pagato non con moneta ma in attenzione e in profilatura di dati comportamentali. Per alcuni i servizi personalizzati sono il massimo della convenienza, per altri sono un’invasione della privacy, per altri ancora sono l’essere ingabbiati in servizi che non apprezzano.

A seconda della posizione ideologica di partenza, “libero” può essere una benedizione o una disgrazia. Anche se un sondaggio rivela che solo un terzo degli utenti sarebbe disponibile a pagare qualcosa per l’impegno a non usare i propri dati per scopi commerciali, è dubbio che gli verrebbe data questa possibilità: Google e Facebook sono irremovibili nel difendere il loro modello di business contro tentativi di introdurre l’opzione “non tracciare”. Altri, Apple, Microsoft, e Twitter offrono questa opzione, facendone uno strumento di concorrenza. Ma il maggior problema è l’opacità dei business model nascosti negli algoritmi proprietari: è difficile sapere come viene sfruttata la connettività.

Si può sostenere che l’ecosistema ne guadagnerebbe se gli utenti avessero la facoltà di opt out dal sistema: almeno cambiare piattaforma senza perdere tutto il proprio patrimonio di dati, o se avessero la possibilità di modificare le impostazioni di default in modo da impedire alle piattaforme di tracciare i loro dati. Però l’opt out urta contro ostacoli tecnico-economici, ma anche contro norme sociali, e gli imperativi ideologici e le logiche culturali su cui si reggono.

Apparentemente è più facile codificare le relazioni sociali in un algoritmo piuttosto che decodificare l’algoritmo in azioni sociali. Sono sociali gli ostacoli che rendono difficile l’opting out, immense sono le pressioni degli amici e dei colleghi per restare nel mondo della connettività online.

Difficile contestare una norma così pervasiva: perché non condividere tutto? Perché non semplicemente apprezzare la pubblicità gratuita? Cose in cui si credeva, il diritto di sapere chi controlla un certo spazio sociale, non sono più evidenti tra colleghi. Per molti, opt out è opting out dalle proprie relazioni sociali: come è potuto accadere che norme e standard siano cambiati così drasticamente senza che ce ne accorgessimo?

Nei riguardi delle norme, il potere delle relazioni sociali è molto maggiore di quello di law and order. in meno di un decennio le norme delle relazioni sociali online sono cambiate dal priorizzare la connettibilità all’allineare connettibilità e connettività, e considerare i due ermini intercambiabili. “Sociale” è diventato un ombrello che nasconde più di quello che rivela: questa è la ragione per preferirgli il termine connective media. Caratterizzando la privacy come una norma in evoluzione, Zuckerberg ha fatto dello sharing il gold standard.

Google accusa i concorrenti di fare sistemi chiusi che gli altri non riescono a penetrare. Le piattaforme sono diverse ma i principi della popolarità e della neutralità, della connettibilità e della connettività, della rapida crescita e del flusso continuo dei dati, del winner-takes-all e dello star system hollywoodiano costituiscono un insieme di principi singolarmente coerente anche se difficile da riconoscere nella sua cogenza.

Opting out richiede una continua vigile attenzione non solo a come operano le aziende ma anche alle norme sociali e culturali. Dalle storie dei singoli microsistemi si ricava un processo di normalizzazione, come certe parole, sharing, “amico”, liking, trending, following, hanno preso significati dominanti. La cultura della connettività si è manifestata come una serrata negoziazione delle diverse piattaforme tra loro e con i loro utenti sul significato delle relazioni sociali online e della creatività.

I connective media sono diventati quasi sinonimi delle relazioni sociali, puoi opt out ogni volta che like, ma non puoi mai lasciare. È diventata adulta la generazione per cui i social media sono un dato, un’infrastruttura che non si mette in discussione, è importante rendere esplicite le strutture ideologiche sottostanti ai microsistemi e alla loro ecologia.

Mentre stanno emergendo sistemi intelligenti più avanzati è necessario diffondere cultura informatica arricchita da competenze analitiche e capacità di giudizio critico. Questa critica storica del primo decennio dei connective media è il primo passo verso un futuro sostenibile.

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