C’è stato quello britannico, altri potrebbero essercene in Europa, naturalmente ci sarà il nostro di ottobre: referendum, s’intende. Tema su cui conviene tornare per discernere, nelle critiche, quelle sul risultato della consultazione, quelle sulle modalità con cui si è svolta, quelle sull’istituto referendario in sé. Sul risultato di Brexit, abbiamo letto di tutto (e altro leggeremo): cause e conseguenze, accuse e pentimenti, rimedi da trovare e occasioni da cogliere.
Quanto alle modalità, l’uscita del Regno Unito dall’Ue è stata votata da una minoranza: tenuto conto dell’affluenza del 70%, il “leave” ha vinto con un sostegno effettivo del 36% degli aventi diritto al voto. Una «roulette russa», per Kenneth Rogoff (Il Sole 24 Ore 28 giugno 2016).
Possibile che quando David Cameron decise di indirlo non avesse considerato che questo esito (un’affluenza del 70% non è bassa) era largamente prevedibile? Da noi i trattati internazionali possono essere modificati con legge ordinaria, ma non sottoposti a referendum: possibile che in Gran Bretagna l’annullamento di un trattato tra Stati richieda meno passaggi di un divorzio tra coniugi?
Ma quando Rogoff afferma essere una «aberrazione» pensare che una decisione presa come si è fatto per Brexit sia «necessariamente democratica», il discorso si sposta su un piano diverso, da quello delle regole con cui si è svolto, alla valenza politica dell’istituto referendario. E quando si legge che, il giorno seguente al voto, Google ha registrato un’impennata di richieste per sapere «che cosa è l’Ue» da parte di utenti britannici (britannici che usano il computer, figurarsi gli altri), allora è legittimo chiedersi in base a quali conoscenze sia stata presa quella “deliberazione”, come l’avrebbe chiamata Luigi Einaudi.
Le informazioni costano, e quindi i referendum costano. Poco se chi vota può basarsi sulle conoscenze di cui dispone direttamente o indirettamente, come fu nel caso del divorzio e dell’aborto. Quando si è trattato di votare perché i presidenti delle Casse di Risparmio non fossero più nominati dal governo, è potuto soccorrere il buon senso; per la preferenza unica, lo spirito del tempo. Ma quando le questioni si fanno complesse e gravide di conseguenze, hanno ragione quelli che sostengono che su di esse i referendum non possono esercitarsi, dovendosi limitarli a questioni più semplici? È la stessa cosa che succede, se mi è consentito il paragone, con la politica industriale, solo al rovescio: su che cosa e quanto produrre, il governo non potrà mai avere tutte le informazioni disponibili all’insieme degli operatori di mercato a costo praticamente nullo; su come votare nei referendum, il cittadino dovrebbe dedicare un tempo enorme per procurarsi informazioni che le élite, sociali culturali e politiche, acquisiscono di mestiere.
E per mestiere diffondono. Sono infatti le élite a scegliere gli argomenti a favore o contro, a esprimerli con le parole su cui si divideranno le opinioni dei votanti. L’errore logico che vede Luca Ricolfi (Il popolo è sovrano se vota “come deve”, Il Sole 24 Ore, 26 Giugno 2016), tra parlare «con sufficienza, talora con disprezzo del popolo che vota Cinque Stelle o sceglie Brexit» e «lodare la saggezza, la maturità democratica, la lungimiranza del popolo che vota nel modo giusto», deriva dall’immaginare una contrapposizione tra il popolo (ignorante) ed élite politiche (sapienti). Questa contrapposizione non esiste, ogni élite ha il suo popolo, ereditato o sedotto, e ogni popolo una sua élite, per tradizione o per affinità.
I desideri e i timori, le soddisfazioni e le esigenze degli elettori sono la materia su cui lavorano i politici per averne il consenso, perché il consenso è ciò a cui ambisce, chi ce l’ha per mantenere il controllo, chi non ce l’ha per conquistarlo. La “sufficienza” e il “disprezzo” mascherano solo il disappunto per una scelta sbagliata. L’obiettivo – politico – di ricompattare il suo partito ha indotto Cameron a lanciare il referendum; l’opportunità – politica – di aiutarlo o di contrastarlo ha determinato i posizionamenti nella campagna elettorale.
Il successo – politico – di Renzi non sarà determinato dall’ignoranza dei votanti su Titolo V e Senato, ma da come la competizione tra élite ha forgiato i compromessi dei testi, come questi danno appigli per spostare l’asse politico (o anche solo per dare un’intervista con cui prendersi una rivincita). Anche il far credere che “uno vale uno”, e che la democrazia diretta è superiore a quella parlamentare sono politica: duro a dirsi, ma perfino le scie chimiche possono essere funzionali a un progetto di successo.
Credere a un economista defunto o a un comico vivente è meno diverso di quanto sembri: dipende solo dalle posizioni di partenza.
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di Luca Ricolfi – Il Sole 24 Ore, 26 giugno 2016
luglio 15, 2016