Fare ordine: nei dati…
“Ci siamo accorti che le informazioni erano troppe: era necessario fare ordine”. La voce, alla radio austriaca, è quella di Larry Page, intervistato per la ricorrenza. Page Rank, l’algoritmo che assegna un peso numerico ad ogni elemento di un collegamento ipertestuale di un insieme di documenti, “fa ordine” perché consente di ordinare gli elementi di un insieme secondo la loro l’importanza relativa. Questa è la ragione del successo di Google: grazie a Page Rank possiamo orientarci nella sterminata massa di dati con cui il web ci sommergerebbe. Con il web, il mondo è diventato di colpo immensamente più grande; se, come insegna Agostino, il nostro “prossimo” sono quelli che abbiamo vicino, prossimo diventano virtualmente tutti gli abitanti del pianeta. Rischiamo di perderci, se il mondo non diventa anche più trasparente, e qualcuno ci rende possibile trovare, sapere, avere quello che cerchiamo.
L’albero della conoscenza, di cui abbiamo mangiato, è anche l’albero del bene e del male. Acquisito il bene come nuovo diritto universale, è sul male che si esercitano le Cassandre. Non solo il male che è possibile fare deliberatamente, usando le potenzialità di questo (come di ogni altro) nuovo strumento. Ma il male che deriva intrinsecamente dalla sua fruizione: il maggior tempo che dedichiamo, il maggior numero di persone che incontriamo, la maggiore quantità di risorse che spendiamo, perfino il maggior numero di parti cesarei che le donne preferiscono nel garantire la sopravvivenza di questo pianeta.
… e nelle accuse.
Di ben altra sostanza sono le accuse alle aziende che mediano tra noi e il mondo digitale, i Faang, l’affettuoso acronimo con cui vengono collettivamente chiamate. Più che critiche agli strumenti che esse producono, sono attacchi al loro modello di business, e si addensano intorno a due poli. Il primo, perché il loro successo sarebbe dovuto all’uso (per alcuni al furto) dei nostri dati: e chiama in causa il diritto alla privacy. Il secondo, perché sarebbero monopoli formatisi grazie a un’Antitrust colpevolmente lasca: e chiamano in causa il funzionamento del mercato, le diseguaglianze sociali, e la stentata crescita della produttività. Dimostrata, credo, la fallacia del primo capo d’accusa (“Il prodotto sei tu”, Il Foglio, 14 Giugno), per far lo stesso anche del secondo mi avvalgo largamente del paper con il quale si è aperto, davanti ai banchieri centrali del mondo, l’annuale simposio della Federal Reserve a Jackson Hole, quest’anno centrato sul cambiamento di struttura dei mercati, quelli reali, non quelli finanziari. Autore John Van Reenen della Sloan School of Management al MIT; tema l’aumento delle differenze tra aziende.
Un mondo polarizzato.
Enormi sono le differenze di produttività tra aziende, non solo in generale, ma anche nei singoli settori. Queste differenze sono aumentate nel tempo, sia in termini di produttività sia di fatturato: il mondo è diventato più concentrato, con un piccolo numero di aziende con grande potere di mercato. Quanto? più che alla concentrazione (che richiederebbe di definire il mercato di riferimento), le Antitrust guardano al mark-up del produttore (prezzi meno costi), e alla conseguente riduzione della quota del PIL che va al lavoro. La maggior parte delle aziende americane non ha avuto né aumento né diminuzione del mark-up. Ne deriva che l’aumento degli utili aggregati è tutto andato a vantaggio di quelle più grandi e più produttive. La stessa cosa succede per i salari, dove aumenta la differenza tra aziende, con piccole variazioni all’interno di ciascuna.
E’ la riduzione della concorrenza, magari dovuta a un atteggiamento lassista delle autorità antitrust, ad avere prodotto la crescente differenza di potere di mercato tra grandi e piccole aziende? Oppure sono la globalizzazione e le nuove tecnologie ad aver cambiato la natura della concorrenza, senza peraltro ridurla? Se aumenta il numero dei mercati in cui “il primo prende molto”, emergono aziende “superstar”: il loro successo è dovuto a lotta “per il mercato”, non a pratiche anticoncorrenziali – fusioni o accordi collusivi – “nel mercato”.
Antitrust e regolamentazione.
Secondo alcuni, l’Antitrust avrebbe avuto, durante le presidenze George W. Bush e Barak Obama, un comportamene troppo permissivo. La percentuale di fusioni bocciate che era del 15,7% tra il 1970 e il 1999, è scesa a meno del 3% tra il 2000 e il 2014; in pratica vengono consentite fusioni se restano almeno 5 altri concorrenti. D’altro canto però sono anche aumentate le condanne che le autorità hanno comminato, sia penali sia finanziarie (da $ O,36 mld nel 2004 a $ 1,3 mld nel 2014), e le sanzioni, memorabile quella di $ 5,1 mld inflitta delle autorità EU a Google. Potrebbe essere anche dovuto al ruolo delle istituzioni finanziarie, come Blackrock, anch’esse diventate più grandi e più concentrate: potrebbe ridursi la concorrenza tra le aziende di cui detengono importanti partecipazioni.
Anche le regolamentazioni riducono la concorrenza: sono costi fissi, costituiscono barriere all’ingresso che favoriscono le aziende grandi e con potere di lobby. Secondo alcuni gli USA sono diventati molto più regolamentati negli ultimi decenni, ad esempio con il Dodd –Frank Act o con l’American Care Act. E’ peraltro vero in Europa, e in USA con Reagan negli anni’80, ci furono molte deregolamentazioni. Le regolamentazioni dei mercati finanziari e sanitari sono una risposta alle crisi derivanti, in parte, dalle concentrazioni nei mercati finanziari (il too big to fail) e sanitari. Cioè le nuove regolamentazioni appaiono più gli effetti che le causa della maggiore concentrazione.
Le superstar.
Le considerazioni che attribuiscono l’aumento del potere di mercato a comportamenti delle istituzioni, Antitrust e regolatori, appaiono non univoche, contraddette da altre che indicherebbero invece che i mercati sono diventati nel tempo più concorrenziali. I costi delle transazioni commerciali si sono ridotti con gli accordi del WTO di 40 anni fa; l’ingresso della Cina nel 2001 ha avuto un effetto pro-competitivo nel mercato dell’OCSE; sono cadute molte barriere non tariffarie; in Europa si è sviluppato il mercato comune. Anche la tecnologia ha ridotto i costi di transazione nei mercati e tra paesi: i costi della logistica sono scesi, fino a zero per i prodotti digitali; internet rende possibile penetrare aggressivamente in mercati stranieri; si possono paragonare prezzi e offerte. Insomma, globalizzazione e tecnologie hanno aumentato la concorrenza. Ma in mercati non perfettamente concorrenziali, le aziende più produttive accrescono la loro quota di mercato; se i consumatori diventano più attenti ai prezzi, aumenta la quota di mercato delle aziende più grandi e più produttive: quelle meno efficienti escono dal mercato e quelle che restano crescono. Più concorrenza conduce a maggiore concentrazione. E a maggiori margini (aggregati per settore industriale): perché, se la concorrenza comprime i margini all’interno della singola azienda, l’effetto è più che controbilanciato dalla riallocazione della quota di mercato tra aziende, a favore di quelle più grandi e più produttive.
In generale più concorrenza comporta che all’azienda con un vantaggio di prezzo o di qualità vadano grandi quote di mercato. Nel caso specifico della concorrenza tra piattaforme, si manifesta l’effetto rete, dove piccole differenze di qualità possono consegnare il mercato a uno o due aziende, che conseguono grandissimi profitti. Questo non vuol dire che è scomparsa la concorrenza, ma solo che essa ha preso un’altra forma. Non è concorrenza per il mercato, ma concorrenza nel mercato.
Oltre a globalizzazione e tecnologia, anche l’enorme riduzione dei prezzi dell’HW può aumentare la concorrenza in settori specifici. Ad esempio le aziende della grande distribuzione, che hanno investito in SW proprietario, possono sviluppare una logistica più efficiente, una più rapida rotazione dei magazzini, l’offerta di una maggiore varietà di prodotti: e questo porta a più concentrazione e più profitti. Analogamente nel settore bancario e delle vendite online. Una parte della crescita delle superstar è dovuta anche alla caduta dei prezzi dell’HW, per la riallocazione della produzione verso aziende molto profittevoli e con grande efficienza informatica.
Meno concorrenza o Superstar?
L’aumento del mark-up aggregato e della concentrazione è dunque dovuto a una generale minore concorrenza oppure a un cambiamento dell’ambiente economico, che rialloca l’attività verso le “superstar”? Se è dovuto a una debole attività antitrust, si avrà minore efficienza allocativa, aumento dei prezzi e calo della produttività. Se invece è dovuto a mercati più competitivi che riallocano un maggiore output alle aziende più efficienti, si avrà incremento della produttività. Empiricamente si osserva una correlazione positiva tra l’aumento della concentrazione e quello di produttività e di innovazione (misurata al solito con i brevetti). E’ dunque nei settori più dinamici che c’è stata una maggiore concentrazione. E siccome questo si verifica generalmente in tutti i Paesi dell’OCSE, che pure hanno istituzioni molto diverse – attività antitrust, potere dei sindacati, salario minimo – vuol dire che a contare sono fattori strutturali e non comportamenti istituzionali.
Una politica per l’Antitrust.
Il fatto che il mondo sia più vicino al modello superstar, conclude van Reenen, non significa che l’Antitrust debba essere depotenziata. Che queste aziende abbiano conquistato la loro posizione dominante per i loro meriti, non garantisce che esse useranno sempre il loro potere di mercato a beneficio dei consumatori. Hanno interesse a rafforzare la loro posizione facendo lobbying, alzando barriere all’entrata, comprando i loro futuri possibili concorrenti; ad esempio l’acquisto di Instragram e di Whatsapp da parte di Facebook ha eliminato la possibilità che essi diventassero concorrenti di Facebook. Ma nell’era delle aziende superstar la politica Antitrust deve essere ripensata: l’eterogeneità delle imprese spiega la differenza di ricchezza delle nazioni ed anche la crescita della produttività aggregata. E questa eterogeneità negli anni recenti è aumentata, non solo in termini di fatturato, ma anche di salari e di produttività.
Smembriamole!
Ha fatto ordine, Google: la soddisfazione di tanti l’ha fatta crescere. Ma insieme, come diceva Ronald Reagan, è cresciuta la voglia di regolamentarla, lei e gli altri suoi compagni di Faang. Non sapendo bene come farlo, si pensa di smembrarli. E dato che una ragione pur ci vuole, si dice che sono “monopoli”. Ora per la legge – in America ancora usa farci attenzione – monopolio è una cosa precisa, che richiede per prima cosa di individuare il “mercato di riferimento”. Apple e Microsoft non hanno posizioni maggioritarie in nessuno dei mercati in cui operano; non lo ha neppure Amazon, sia che ci si riferisca alla grande distribuzione in generale, dove Walmart è ancora il più grande GDO, sia a quella online, dove ormai non c’è azienda che non abbia il proprio sito. Google e Facebook insieme nel 2015 avevano di un quarto della spesa pubblicitaria USA. E poi, è corretto prendere a riferimento i soli mercati americano ed europeo? E’ diffusa l’opinione che la Cina possa avere la supremazia nella A.I., non per il numero di matematici che sforna ogni anno, ma perché l’A.I. richiede il deep learning, e per questo bisogna disporre di immense masse di dati: la Cina, grazie alla sua dimensione, ne avrà di più, e, c’è da credere, manco ci pensa a “smembrare” le aziende che li raccolgono. Google ha conquistato la sua posizione battendo fior fiore di concorrenti, reali e potenziali. Se in Europa ogni tanto riaffiora l’idea di fare un motore di ricerca europeo, vuol dire che si ritiene che questa possibilità esista, e che è solo questione di quanto danaro si è disposto a rischiare per riuscirci. Ma poi: perché mai un assetto disegnato a tavolino dal Governo dovrebbe essere più vantaggioso per i consumatori di quello che è il risultato dalla concorrenza sul mercato? Divideteli e basta, si replica, e si porta, come esempio di quello che un’Antitrust dovrebbe fare, il caso dell’AT&T, a cui – l’8 Gennaio 1982 – venne imposto di smembrare il sistema delle Bell Operating Companies che aveva fino a quel momento assicurato i servizi telefonici in USA e in Canada.
In realtà le cose sono andate un po’ diversamente. Il procedimento era iniziato nel 1974, e non riguardava l’estensione “orizzontale” del servizio telefonico, ma l’integrazione verticale con la Western Electric, maggior produttore delle apparecchiature: in USA vs AT&T, l’accusa chiese all’azienda di vendere questa sua partecipazione. L’AT&T, quando si rese conto che avrebbe perso la causa, fu lei a proporre un’alternativa: avrebbe smembrato la più grande azienda della storia americana, e si sarebbe tenuto Western Electric, i Bell Labs, le Yellow Pages, la telefonia long distance, con in più la revoca del divieto di vendere computer. La proposta fu accettata, e fu un successo: ma dell’AT&T, non dell’Antitrust.
E pensare che basterebbe consultare Google per evitare la figuraccia: è gratis.
ARTICOLI CORRELATI
Guarda la pagina originale su Il Foglio
Il prodotto sei tu
di Franco Debenedetti – Il Foglio, 14 giugno 2018
Antitrust policy isripe for a rethink
di Rana Foroohare – Financial Times, 24 giugno 2018
Don’t Blame Lax Antitrust for Spawning Superstars: Jackson Hole
di Christopher Condon – Bloomberg, 24 agosto 2018
Increasing differences between firms: Market Power and the Macro-Economy,
di John Van Reenen – BBVA Research, 31 agosto 2018
Smembrare la Silicon Valley
di Eugenio Cau – Il Foglio, 07 settembre 2018
Breakup of the Bell System
da Wikepedia
Roberto Polillo
6 annoe fa
Il lungo articolo di Franco Debenedetti sul Foglio di ieri pone giustamente l’attenzione sulla urgente necessità di un dibattito per individuare le politiche antitrust più corrette, in un mondo che, dall’inizio del nuovo secolo, è profondamente cambiato per gli effetti dirompenti delle tecnologie digitali. Le argomentazioni svolte nell’articolo riguardano soprattutto, ma non solo, i colossi della tecnologia, che sono cresciuti a dismisura in questi anni, e sembrano portare a una conclusione paradossale: non è vero che oggi ci sia meno concorrenza. O, quanto meno, è giusto che, sui mercati, vincano “i migliori”, e che le aziende più innovative vengano premiate dal mercato. I vincoli imposti al mercato, sembra sostenere in pratica Debenedetti, sono potenzialmente controproducenti, perché pongono ulteriori ostacoli alle startup innovative, a tutto vantaggio dei giganti già consolidati, che hanno la forza di superare senza difficoltà eventuali vincoli regolatori. Io credo tuttavia che, al di là e prima di ogni altra considerazione, su questi temi occorra partire da una considerazione molto banale. E cioè che è indispensabile che, su alcuni servizi cruciali nella società di oggi, al consumatore sia sempre garantita la possibilità di scelta tra fornitori concorrenti. Magari non cinque, ma almeno due. Ed è del tutto evidente che, per quanto riguarda molti servizi offerti dalle cosiddette piattaforme digitali, questa possibilità oggi è estremamente ridotta e, in molti casi importanti, non esista affatto. E non necessariamente perché i servizi offerti dalle piattaforme vincenti siano necessariamente i migliori: molto è stato scritto sui meccanismi dei cosiddetti “effetti rete” che facilitano fortemente chi entra per primo in un certo mercato nel raggiungere una posizione di sostanziale monopolio, e non è possibile richiamarli in poche righe. Peraltro questi meccanismi, ancora poco noti alla fine del secolo scorso, sono stati ampiamente analizzati dagli economisti, e sono ben noti agli imprenditori digitali di successo, che hanno perfezionato i propri modelli di business proprio per avvantaggiarsene al massimo. In conclusione, una “reinvenzione” delle modalità di intervento delle autorità predisposte a tutelare la concorrenza, è non procrastinabile, e non può basarsi su metodi e concetti che risalgono a quanto fatto nel secolo scorso. Come dice Debenedetti, “nell’èra delle aziende superstar la politica antitrust deve essere ripensata”. In qual modo ciò sarà fatto, determinerà in larga misura, in ultima analisi, la qualità delle nostre democrazie.
Stefano Quintarelli
6 annoe fa
Ho letto con attenzione il contributo di Franco Debenedetti su queste pagine, “I 20 anni che cambiarono il mondo” e per brevità mi asterrò dal commentare punto su punto sia le cose su cui sono in accordo sia quelle su cui sono in disaccordo. Mi limito a osservare alcune caratteristiche che differenziano questi intermediari immateriali di mercati a due versanti dalle aziende che tradizionalmente operano nella dimensione materiale. In primo luogo, i dati, a differenza delle cose, sono beni non rivali e solo parzialmente escludibili, come anche affermato di recente da Varian, chief economist di Google. Questo implicherebbe che, per rispettare la privacy degli utenti, i dati da essi ceduti siano gestiti centralmente da una azienda che ne escluda l’accesso agli altri, giustificando così un modello centralizzato attorno a un grande polo. Credo che Debenedetti concorderà con me che la concorrenza sia un bene da tutelare, con la possibilità di emersione di nuovi concorrenti. Facendo un passo indietro, ricordo che quando furono fatte le regole per internet si normarono molti aspetti ma non quelli proconcorrenziali, ritenendo che la concorrenza fosse “un clic away” e indubbiamente così è stato in una primissima fase (che ricordo bene, avendo contribuito a costruirla) quando i modelli di business e le tecniche di possibile monetizzazione non erano chiare. Quando, attorno al 2000, si sono chiarite, è stata altrettanto evidente l’importanza dell’effetto rete e del lock-in, ovvero dei fattori di crescita esponenziale e di limitazione della contendibilità degli utenti e dei clienti, come argomento in dettaglio nel mio libro “Costruire il Domani”. Non è infrequente il caso di “lievi” infrazioni a norme finora “meno” rilevanti in termini sanzionatori quali il codice del consumo, il codice della privacy, le norme sul copyright, ecc. Queste violazioni, che richiedono anni per essere appurate, hanno talvolta consentito di alimentare una tumultuosa crescita della base di utenti di servizi con un forte lock-in, fino a giungere a sostanziali monopoli per un verticale di mercato. La contendibilità di utenti e clienti è fondamentale per la concorrenza, oggi nel caso di molti intermediari (al di là dei citati Faang) è ridotta anche in virtù delle considerazioni di Varian. Quando la politica decise di aprire alla concorrenza i monopoli telefonici, fissò due princìpi essenziali: la portabilità del numero e l’interoperabilità delle reti. Se un utente non può disporre del proprio numero, difficilmente cambierà operatore rischiando di interrompere le sue relazioni. Se si sposta a un operatore da cui non può comunicare con gli utenti degli altri, non si sposterà mai. Le normative attuali prevedono la portabilità dei dati tra operatori online solamente come elemento della regolamentazione privacy Gdpr. A oggi nessun provvedimento fissa la interoperabilità tra servizi, in modo da consentire una efficace concorrenza grazie alla mobilità degli utenti. Chi primo è arrivato (magari violando qualche norma), meglio alloggia. L’effetto è che oggi la concorrenza è per il mercato e non nel mercato e chi conquista il mercato a livello mondiale, a meno di grossolani errori, è sostanzialmente inattaccabile. E’ stata la tecnologia, con le centrali elettroniche, ad abilitare la portabilità del numero telefonico e l’interoperabilità tra operatori telefonici. Oggi la tecnologia, con strumenti quali crittografia e Ipfs, consente di rendere i dati rivali ed escludibili, negando il presupposto di Varian e quindi consentendo di porre i dati nelle mani degli utenti che possono migrare da un operatore all’altro e che consentirebbero agli operatori di interoperare, aprendo la concorrenza nel mercato verticale. Condivido che sarebbe errato pensare di smembrare Google o Facebook, si otterrebbero vari monopoli di segmenti di mercato, senza abilitare la concorrenza. C’è un altro problema di cui fornisco solo un breve accenno che è quello della trasparenza e della parità di condizioni nei mercati che dipendono dagli intermediari. Un amico ha provato a concorrere a un’asta per una pubblicità di una stanza d’albergo dal prezzo di 65 euro a notte. Ha rilanciato sino a 60 euro di costo dell’inserzione, essendo regolarmente battuto da Booking che è andata anche oltre. Cosa che ovviamente non pare avere alcun senso commerciale. Booking è uno dei principali clienti dell’intermediario in questione. Può esservi il sospetto che Booking abbia delle condizioni particolari con quell’intermediario per cui ottenga delle riduzioni sulle tariffe delle aste vinte? La distorsione sarebbe sul mercato alberghiero, che dipende in larga misura da questo intermediario. Tralascio gli aspetti politici, di finanza pubblica, di pluralismo, ecc. che ho trattato su queste pagine tempo fa con il mio contributo “Intermediati digitali, unitevi!”, cui rimando, e concludo con una annotazione più di politica della concorrenza: negli Stati Uniti oggi prevale l’idea, abbastanza contrastante a quella delle origini di Sherman e Brandeis, che il bene del consumatore nel medio-breve periodo sia il valore da massimizzare mentre in Europa pare siamo più inclini a ritenere che la concorrenza sia lo strumento per assicurare il benessere del consumatore e del mercato a lungo termine. Personalmente ritengo che la concorrenza sia un bene in sé e sia il valore da massimizzare in una prospettiva di eventuale rivisitazione politica dell’Antitrust.