Governo e Parlamento. La riforma di cui c’è bisogno

aprile 20, 2024


Pubblicato In: Giornali, La Stampa


La nascita della “costituzione più bella del mondo” fu accompagnata dal celebre ordine del giorno Perassi: la seconda Commissione, recita il testo presentato il 4 settembre 1946, «ritenuto che né il tipo del governo presidenziale, né quello del governo direttoriale risponderebbero alle condizioni della società italiana, si pronuncia per l’adozione del sistema parlamentare da disciplinarsi, tuttavia, con dispositivi costituzionali idonei a tutelare le esigenze di stabilità dell’azione di Governo e ad evitare le degenerazioni del parlamentarismo». La storia politica e le vicende economiche dimostrano quanto perspicace fosse la preoccupazione di Perassi per una razionalizzazione della forma di governo parlamentare. Un dato per tutti: 68 governi nei 76 anni d vita della Repubblica, con una media di 13 mesi e mezzo ciascuno. «Tuttavia», per ricordare Perassi, di mettere mano alla forma di governo, per rendere gli esecutivi più stabili, se ne parla, come noto, da quasi quaranta anni (e da tre commissioni bicamerali e due referendum).

La proposta del governo Meloni (disegno di legge costituzionale n. 935 del 15 novembre 202), che procede in Commissione al Senato, va quindi accolta come un’occasione propizia per porre finalmente mano a deficienze che in tutti questi anni si son rese sempre più palesi. Proprio perché gli obiettivi della riforma sono condivisibili, una valutazione dei modi per raggiungerli deve essere quanto più rigorosa, per evitare di annoverare anche questo tra i tentativi fallimentari.

Rinunciando al modello presidenzialista presente nel proprio programma elettorale (anche se la premier Meloni vi ha fatto di nuovo cenno di recente) il punto caratterizzante della proposta è l’elezione diretta del premier. La formula utilizzata dispone che «le votazioni per l’elezione delle due Camere e del Presidente del Consiglio avvengono contestualmente». Sembra quindi configurare una elezione con tre schede elettorali: per la Camera, per il Senato e per il Presidente del Consiglio. Balza agli occhi come vi sia il rischio che lo scrutinio delle tre diverse schede possa portare a risultati incoerenti fra di loro.

Per tentare di limitare questo rischio, una proposta trasversale, che parte dallo stesso testo del Governo e che è stata elaborata da Gaetano Quagliariello e Peppino Calderisi per Magna Charta, con il sostegno di altri ex parlamentari di peso come Enrico Morando, Stefano Ceccanti e Natale D’Amico, propone che l’elezione del premier avvenga attraverso un collegamento con l’elezione dei parlamentari, con una esplicita designazione nelle due schede elettorali per Camera e Senato.

Come sottolinea un position paper sulla proposta di premierato dell’istituto Bruno Leoni, una riflessione a freddo porterebbe a concludere che la designazione del premier nelle schede elettorali per eleggere senatori e deputati ha «due vantaggi, uno a livello costituzionale, l’altro a livello politico. Renderebbe il rapporto di fiducia più coerente di quanto non sia nell’attuale proposta, ed eviterebbe esiti contraddittori delle crisi di governo rispetto alla volontà direttamente espressa dal voto popolare. Inoltre renderebbe infondati i timori (o i sospetti) di derive plebiscitarie o autoritarie spingendo le opposizioni in Parlamento a condividere la necessità di avere un primo ministri responsabile di fronte all’elettorato».

D’altro canto, la riforma di cui abbiamo bisogno è quella di un premier forte nella gestione delle crisi di governo, non solo al momento dell’elezione. Da questo punto di vista, come si legge sempre nel paper dell’IBL, la possibile staffetta prevista nel testo originario proposto dal Governo «paradossalmente rende più forte e responsabile di fronte all’elettorato il Primo Ministro non eletto successore a quello eletto ma sfiduciato, senza tuttavia garantire la fine naturale della legislatura, dal momento che una “seconda possibilità” al governo viene data una sola volta».

Questo particolare problema della proposta originaria ha trovato parziale soluzione in un emendamento di recente approvato in Commissione, secondo il quale — così come suggerito tra gli altri dall’Istituto Bruno Leoni — viene sostanzialmente attribuita al premier la possibilità di determinare lo sviluppo successivo alla eventuale crisi: scioglimento anticipato o prosecuzione della legislatura; mentre al PdR resterebbe il potere formale di scioglimento delle Camere e, nel secondo caso, di individuazione di un nuovo primo Ministro.

Un’altra questione ancora non affrontata come meriterebbe è quella della formula elettorale: l’inserimento in Costituzione di un premio di maggioranza finirebbe per costituzionalizzare un sistema proporzionale ipercorretto. Nel centocinquantennale einaudiano, è il caso di ricordare il famoso saggio “contro la proporzionale”, e la chiarezza con la quale Einaudi — partendo da una concezione liberale della democrazia —demolì ogni ipotesi di sistema elettorale di questo tipo. Più lineare sarebbe riconoscere le virtù del maggioritario per una democrazia decidente, e rinviare alla legge ordinaria la redazione di una disciplina che favorisca la nascita di maggioranze parlamentari il più possibile coese.

In conclusione, come conclude il paper citato, «alla nostra forma di governo servono pochi, essenziali interventi: evitare che il Parlamento diventi definitivamente il fantasma di sé stesso; restituire ai cittadini la scelta del titolare dell’indirizzo politico e riaffermare la responsabilità di governare; consentire al governo di avere una forza intrinseca e una compattezza interna, attribuendo al premier poteri analoghi a quelli che esercitano i suoi colleghi nei governi della liberaldemocrazia europea. Conforta, in tal senso, che le forme mature di parlamentarismo, dal Regno Unito alla Spagna, dalla Germania alla Svezia, sono andate tutte nella direzione di un rafforzamento dei poteri del Primo ministro».

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