Gli attacchi a un’azienda quotata da parte dei fondi attivisti sono sempre interessanti, a volte eccitanti: per gli azionisti, perché nell’aspettativa di successo il corso del titolo in Borsa sale, e per il pubblico in generale, perché a essere messe alla prova sono strategie e assetti di comando consolidati nel tempo. L’attacco portato alla Danone dai fondi attivisti Bluebell Capital Partners e Artisan Partners lo è anche per una serie di motivi ulteriori: perché Danone è un’azienda francese, e in quel rigido mondo imprenditoriale questo tipo di attacchi è piuttosto raro; poi perché gli yogurt Danone e Activia, e l’acqua minerale Evian ci sono familiari; e infine perché alla guida di Bluebell ci sono gli italiani Francesco Trapani (amministratore delegato di Bulgari quando venne venduta alla Lvmh di Bernard Arnault), Giuseppe Bivona e Marco Taricco, una squadra che ha già agitato i sonni dei manager di Lufthansa e Hugo Boss.
Sotto attacco è finito personalmente Emmanuel Faber, chief executive officer dal 2014 e anche chairman dall’anno successivo, che domenica sera ha lasciato entrambe le posizioni. Sotto la sua gestione le azioni di Danone sono cresciute dell’22%, una performance insoddisfacente, se paragonata al +43% di Nestlè e al +55% di Unilever. È vero che Danone ha sofferto particolarmente per la pandemia, i bar e ristoranti che sono stati chiusi non hanno comperato le acque minerali Evian e Volvic; e che in Cina le vendite di cibi per bambini hanno patito la concorrenza di aziende locali, e per le nascite, diminuite lo scorso anno del 15 per cento. A ottobre dello scorso anno Faber aveva annunciato una revisione strategica di alcune attività in Argentina e Stati Uniti e il mese successivo era stata la volta di un piano di riorganizzazione aziendale con 2mila licenziamenti. Non solo, il 1° marzo aveva comunicato che avrebbe lasciato la carica di Ceo, per restare presidente. Ma ai fondi non è bastato e si è reso necessario un taglio netto col passato.
In quel passato Emmanuel Faber si era distinto per il suo interesse per l’agricoltura sostenibile e aveva parlato sovente dell’impatto sociale e ambientale delle attività della Danone. Questa, l’anno scorso, era diventata una entreprise à mission, una forma societaria analoga a quella delle nostre società benefit (come Illy), che perseguono uno scopo sociale e ambientale ulteriore rispetto a quello del solo profitto. Queste forme di governante sono codificate, ma la sostanza è sempre opporre allo shareholder capitalism lo stakeholder capitalism; alla teoria per cui, secondo la famosa formulazione di Milton Friedman, l’azienda ha una e una sola responsabilità sociale, quella di produrre ricchezza, aumentando il valore a lungo termine dell’impresa, opporre quella per cui si devono perseguire, singolarmente, gli interessi di ciascuna delle altre constituency coinvolte nel processo produttivo: quindi oltre agli azionisti i dipendenti, i fornitori, i finanziatori, i clienti, le comunità in cui opera. Una contrapposizione forzata, perché il perseguimento dell’aumento di valore dell’impresa richiede di tener conto dei singoli interessi. Pensava ai propri interessi Henry Ford che nel 1914, di sua iniziativa, ridusse l’orario di lavoro da 9 a 8 ore e aumentò la paga da 3 a 5 dollari l’ora: doveva cercare di trattenere il capitale umano degli operai che avevano imparato come si fabbrica un’automobile. E ha rischiato la Nike che ci ha messo un po’ di tempo a capire i problemi morali dei genitori nel regalare ai loro ragazzi palloni che altri ragazzi avevano confezionato, lavorando in condizioni di quasi schiavitù.
Può essere un buon investimento pagare il restauro di una scuola se questo migliora i rapporti con la comunità locale. Altra cosa è chiedere al management non di perseguire un unico obbiettivo, il valore a lungo temine per gli azionisti, ma di perseguirne singolarmente diversi, per loro natura opposti. Un’impresa gestita con un unico obbiettivo ha un vantaggio competitivo verso una che ne ha diversi e contrastanti. Nel primo caso il management sa su che cosa sarà giudicato e valutato, nell’altra non sa come verranno pesati i vari risultati. Proprio per questo serve il mercato dei diritti di proprietà: non chiedere anche agli shareholder di credere nello stakeholder capitalism.
Se non esiste un criterio oggettivo il valore del titolo ci sono solo due soluzioni: o è il management che persegue i propri obiettivi e valuta se stesso, e siamo nel managerialismo; o c’è un’autorità diversa dal mercato a giudicare, e siamo nello statalismo. Per fortuna ci sono i fondi attivisti che, anche solo con la minaccia rappresentata dalla loro presenza contribuiscono a che le imprese perseguano il loro dovere etico verso la società: fare profitti.
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