Mercoledì sera, la politica ha battuto un colpo. Ha detto: io sono il centro del mondo. Di nuovo
di Alberto Mingardi
La domanda è una sola: ma come fa a venire in mente un’idea così? Dico, agganciare lo stipendio dei manager delle società quotate all’indennità parlamentare. Quasi i manager fossero magistrati, o professori universitari: insomma impiegati dello Stato il cui salario, per questioni di senso e di correttezza istituzionale, potrebbe muoversi all’unisono con quello dei rappresentanti del popolo.
Come se il rapporto d’agenzia, azionista-manager, dovesse essere regolato da altre logiche che quelle autonomamente scelte da chi si assume il rischio d’impresa.
Elio Lannutti, padre padrone dell’Adusbef e senatore dell’Italia dei valori, ha proposto un emendamento shock e se l’è visto mutare sotto le mani. Lui, che è una vecchia volpe dello spariglio mediatico, l’ha scritto per piazzare una bandierina. Gliel’hanno strappato di mano e portato in trionfo. Senatores boni viri, senatus mala bestia? Qui le bestie sono i pecoroni della maggioranza, che nell’ansia di essere più realisti del re, ovvero più tremontiani di Giulio, hanno aggiogato le loro carrozze al carro più populista in circolazione, senza curarsi che fosse targato Idv.
Il provvedimento verrà stravolto e riscritto alla Camera, ci hanno assicurato parlando a nome del Pdl Gasparri e Quaglianello. Ma la frittata è fatta. Il Senato ha parlato. Un voto così, anche in un Parlamento bagaglinesco come quello che ci ritroviamo, non è, non può essere, un mero incidente di percorso.
Né lo si può leggere come un’azione a carattere quasi lobbistico, il tentativo di rovesciare le macchine ai critici della casta , stabilendo una sorta di fratellanza dell’euro con un gruppo influente nell’opinione pubblica come i CEOs delle imprese quotate, signori e signorotti dell’universo per usare un lessico pre-crisi.
Come tutto in Italia, il senso dell’approvazione dell’ emendamento Lannutti si riduce a una parola. Quella parola è sciatteria. La sciatteria di un pezzo di classe dirigente, i manager delle imprese private, talmente inginocchiato per abitudine e vocazione e interesse verso il Palazzo, che il Palazzo lo considera ormai come una torma di ben pasciuti camerieri. Quante volte abbiamo sentito gli amministratori delegati delle primissime banche italiane paragonarsi esplicitamente ai banchieri pubblici del passato? Quante volte si sono appuntati sul petto la loro sensibilità ai problemi dei più poveri e hanno affermato di erogare credito non in base a criteri strettamente economici ma pensando ai territori? Quante volte? E allora, che diamine, ha ragione Lannutti. Madre Teresa non guadagnava tre milioni di euro l’anno. Se i nostri banchieri dicono di essere Madre Teresa, che vengano pagati come Madre Teresa.
Sciatteria è anche quella di una classe politica allo sbando, che a vent’anni dalla fine della fase più partitocratica e clientelare della nostra storia, ancora ragiona con gli stessi parametri. Che il mercato sia uno spazio autonomo rispetto alla politica, non è che non l’accettano: non lo capiscono. E in effetti, se poi è la politica a suggerire chi deve fare l’amministratore delegato non della Rai o dell’Eni, ma di imprese a capitale privato, forse di nuovo ha ragione Lannutti. Nominiamo i nostri amici, ma perché non si divincolino dal guinzaglio, decidiamo noi quanto debbono essere pagati.
Chi devono essere i dirigenti di un’azienda, quanto e in che modalità debbono essere remunerati, sono decisioni che spettano ai proprietari di quella impresa: agli azionisti. Gli azionisti sbagliano col loro. Gli stipendi sono troppo alti? Quelli italiani non lo sono, rispetto ad altri Paesi, ma se anche così fosse i conflitti d’interesse – perché di quello stiamo parlando: di una potenziale collusione volta a spolpare un’impresa – non si risolvono per legge.
Lo Stato, quando malauguratamente è azionista, può dire la sua. Anche in questo caso non tutto è come sembra. Prendiamo le grandi banche “salvate”. Ponendo un tetto artificiale alle compensazioni dei manager, si può finire per allontanare da esse proprio i talenti che servirebbero per riportarle in vita. Ma qui saremmo alle conseguenze inintenzionali. Fermiamoci invece alle azioni intenzionali.
Mercoledì sera, la politica ha battuto un colpo. Ha detto: io sono il centro del mondo. Di nuovo. I capitalisti italiani, che per definizione davanti ai bulli di palazzo piegano la schiena convinti di essere loro a tirarne i fili, tacciono. Sedici anni fa, con la discesa in campo di uno dei protagonisti di maggior successo della scena imprenditoriale italiana, credevamo cominciasse una nuova era per il nostro Paese. Non si sa bene che cosa questa nuova era abbia portato. Ma gli storici del futuro, rileggendo quell’assurdo emendamento, sapranno almeno datarne la fine.
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