«Ho parlato con mio fratello. Eravamo entrambi sicuri della condanna, nonostante la fiducia dei legali»
Intervista di Fabrizio Caccia a Franco Debenedetti.
Un’ironia amarissima traspare, inizialmente, dalla sua voce: «Eccomi qua, ho 83 anni, non scappo, non fuggo, non sono ancora detenuto…», dice al telefono Franco Debenedetti, appena condannato dal tribunale d’Ivrea in primo grado a 5 anni e due mesi di carcere per il processo sull’amianto all’Olivetti. La stessa pena che ha avuto il fratello Carlo, l’Ingegnere.
Vi siete già sentiti?
«Sì, ci siamo scambiati due parole. Del resto, alla vigilia io ero sicuro della condanna. E lo era anche lui, sebbene gli avvocati si mostrassero fiduciosi…».
Qual è stata la sua prima reazione, a caldo, dopo la sentenza.
«Né sorpresa né rabbia. Ho fatto un tweet. Ora vi leggo il testo: come si dice in questi casi, ho fiducia nella magistratura…».
Vuole dire che…
«Lasciamo l’ambiguità della frase, d’accordo? Ma si capisce benissimo cosa penso, no? Sono accuse ingiuste. Di sicuro ricorreremo in Appello. Ricorreremo finché ce n’è».
L’ex senatore Ds fino al 2001, dal ‘76 consigliere d’amministrazione del gruppo Cir, ex amministratore delegato dell’Olivetti dal 1978 all’89, sta scrivendo al computer di banche e di referendum («il mio ultimo articolo su Il Foglio è stato ripreso dalla Frankfurter Allgemeine, lo sa?»). Nel frattempo, però, si è preparato anche un lungo appunto sul tavolo («avrei voluto fare delle dichiarazioni spontanee al processo, ma sono rimaste qui ed ecco che adesso tornano utili…») per rispondere alle accuse gravissime (lesioni colpose e omicidio colposo) contro di lui e il fratello Carlo, condannati per dieci casi di malattie da amianto, tra gli anni 70 e i 90.
Cosa c’è scritto nei suoi appunti, senatore?
«Ho scritto che l’amianto ha provocato tragedie e l’accusa ha rievocato casi, fatti e imprese dove esse sono avvenute. Ma l’Olivetti era un’altra cosa, e non solo perché abissalmente diversi erano i prodotti e le lavorazioni. Ma perché diverso era il modo di essere dell’azienda. L’Olivetti di Adriano è stata una cosa unica nella storia dell’industria, in Italia e nel mondo, anche per quello che riguarda l’attenzione ai lavoratori, alle condizioni e alle modalità del lavoro».
Vuole dire che all’Olivetti, in quegli anni, si prestava maggior cura che altrove per la salute dei lavoratori?
«Vi faccio degli esempi: io stesso portavo i miei bambini a curarsi presso i servizi sanitari aziendali. Il nostro chief economist, il grande Franco Momigliano, si faceva visitare nelle stesse stanze degli operai. Da noi non c’era la catena di montaggio, ma le isole di montaggio contro l’alienazione. E il capo del personale era un certo Paolo Volponi… Insomma: le condizioni di lavoro, gli aspetti psicologici, le relazioni interne, i rapporti col territorio, venivano al primo posto. Perciò trovo ingiusto ora sentirmi accusato di esser stato incurante…».
Ci sono stati dei morti…
«Ma certo, non sono mica un medico legale, non contesto che ci siano stati dei morti per amianto. Anche se noi fabbricavamo macchine da scrivere, non eravamo un cantiere navale! Dicono che l’amianto fosse presente nel talco per asciugare i rulli. Io non lo so. Magari qualcosa davvero non avrà funzionato, malgrado tutta l’attenzione e i controlli».
E allora? Come finiscono i suoi appunti, senatore?
«…Alla tristezza per i fatti, al cordoglio per le persone, alla solidarietà per le famiglie, si aggiunge un elemento di costernazione e incredulità: com’è possibile che sia avvenuto? Il processo alle persone è anche un processo all’Olivetti: e io difendendomi intendo, e intenderò, difendere anche l’azienda in cui ho lavorato 14 anni».
luglio 19, 2016