Molte sono le ragioni per cui tante imprese soffrono e tante chiudono: non sono competitive, vivono in un sistema non competitivo, la domanda cala, i clienti non pagano, l’aumento del carico fiscale intacca l’autofinanziamento. Tante le cause, unico il risultato: manca la liquidità. Le banche, a cui viene chiesto di aumentare la patrimonializzazione, riducono gli impieghi. Gli strumenti messi in piedi dalla Bce per trasmettere al mercato la propria politica monetaria, ad ogni evidenza non bastano.
La cosa paradossale è che il mondo è pieno di soldi. Una massa di danaro, quello stampato da (alcune) banche centrali per contrastare le crisi dei loro paesi: costa poco, deve trovare impieghi, riscopre i junk bond, va alla scoperta di aziende anche in mercati periferici come il nostro. Ma non arriva a finanziare le necessità della parte minuta della nostra economia. Il direttore del Sole 24 Ore ha lanciato domenica il tema, illustri collaboratori del giornale hanno indicato alcune strade: può forse servire qualche riflessione per delimitare il campo e precisare l’intervento.
I soggetti a cui ci si riferisce sono le aziende piccole e medie, che operano principalmente sul mercato interno. Le grandi, e le medie che esportano la maggior parte della loro produzione, non hanno difficoltà a finanziarsi, a tassi in alcuni casi inferiori alla Repubblica. Le nuove idee, se i progetti appaiono scalabili, trovano anche in Italia strumenti specializzati. L’oggetto di cui si discute è il finanziamento in primo luogo del capitale circolante, cresciuto a causa del generale rallentamento dei pagamenti, e dei magazzini appesantiti dal rallentamento della domanda; e poi, quanto a investimenti, di quelli che diremmo di continuità, per aumentare la produttività, diversificare prodotti e mercati. Infine, eventualmente, finanziamento di una redditività momentaneamente negativa, del tutto compatibile, se nei limiti indicati da Pellegrino Capaldo, con una crisi di natura finanziaria. In sostanza: crediti piccoli, per aziende piccole, alle prese con i grandi problemi del Paese: non c’è da stupirsi se sono i primi ad essere sacrificati dalle banche obbligate a ricapitalizzarsi.
E poi ci sono i tassi. Sono commisurati al rischio, crescono con l’incertezza. Il costo dell’informazione, con le Pmi, è proporzionalmente elevato: ma le banche in questo, e nonostante la pratica dell’affidamento multiplo, hanno un vantaggio comparato, soprattutto se gestiscono anche il conto corrente dell’impresa. È dunque dalle banche che si deve passare. Anche nella proposta di Luigi Guiso e Guido Tabellini le banche sono originatori dei titoli di debito delle imprese, che mettono in un fondo e poi cartolarizzano. Questo fondo non deve diventare un fondo di solidarietà nazionale, deve invece avere la natura e presentare l’attrattività di uno strumento di mercato. Fondi in concorrenza emessi da banche in concorrenza: tra grandi banche e un pool di banche popolari e di credito cooperativo, in Italia ce ne possono essere 3 o 4. Non si vedono ragioni per coinvolgere una struttura pubblica quale la Cdp, che non ha né le competenze né le conoscenze delle piccole realtà industriali, e avrebbe solo un interesse politico. Le banche hanno un interesse economico: si pagano strutture interne di analisi (se sono snelle e competenti dimostrano che la banca è ben gestita), fidelizzano clienti in vista della ripresa futura. Dopo tutto fare prestiti resta il loro mestiere, e la concorrenza il loro habitat.
Come ridurre i tassi? Strumenti che godono, per dimensione e frazionamento, di stabilità e liquidità, diventano attraenti per gli investitori istituzionali, dentro e fuori al Paese: crearli aumenterebbe i finanziamenti disponibili e ne diminuirebbe il costo. Per ridurre il rischio bisogna offrire ai sottoscrittori una qualche forma di (r)assicurazione: le banche conoscono il rischio, le banche ne tengano su di sé una parte. Sono possibili diversi schemi: ad esempio, adottando parzialmente il modello originate to hold, le banche potrebbero tenere sui propri libri una quota (poniamo il 20%) del valore totale dei prestiti erogati, e farlo come prestiti junior, cioè come cuscinetto per assorbire le prime perdite sui crediti. Questa tranche cuscinetto le banche dovrebbero poterla portare alla Bce come collaterale, e la Bce accettarlo, dato che rimane in capo a loro il rischio.
“La crisi finanziaria ha colpito la capacità del settore finanziario in Europa di convogliare il risparmio per investimenti a lungo termine. Particolare attenzione meritano le necessità di finanziamento delle Pmi dato che questo influenza la crescita lungo termine: esse hanno bisogno di accedere a finanziamenti sia bancari che non bancari”. Lo scrive la Commissione Europea in un libro verde emesso il mese scorso. Le proposte guardano al lungo periodo: dagli standard per il credit scoring delle Pmi, al crowd funding. Nel frattempo uno strumento di questo tipo, che si finanzia sul mercato non bancario, ma mette a profitto le conoscenze e usa la parziale assicurazione delle banche, potrebbe trovare interesse anche in altri Paesi Ue. Questa potrebbe favorirlo con una parziale assicurazione pubblica, a un costo appropriato, come avviene per i prestiti ipotecari negli Usa. Essere i primi a sperimentare a casa propria potrebbe convenire alle nostre banche: si conquisterebbero un vantaggio competitivo. Senza dimenticare che il diavolo è nei dettagli, si può pensare al mercato europeo di una speciale categoria di Asset Backed Securities, i prestiti alle Pmi, emessi da banche sui mercati dove hanno competenza, diversificati per paesi e per rischiosità. Successivamente potrebbero trovare interessante entrarvi anche altri operatori non bancari che per mestiere conoscono le imprese e altri investitori che per mestiere devono cercare impieghi.
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aprile 20, 2013