Il primo a profferire la parola fu, se non andiamo errati, Romano Prodi: fu il presidente designato della Commissione Europea, interpellato sulle prime voci di un possibile accordo tra Telecom Italia e Deutsche Telekom, a parlare di “pariteticità”, condizione capace di rendere vantaggioso ogni accordo tra le due società. Da allora “pariteticità” è entrata nel circuito della comunicazione, è diventata il faro di ogni politica, l’obiettivo di ogni piano, il vincolo di ogni accordo.
Paritetico, dunque equilibrato, dunque giusto: i piatti della bilancia esattamente alla stessa altezza come nelle monete da 100 lire. La parola ci suona carica di valenze positive; non per nulla mediare è la nostra vocazione, la terza via la nostra attrazione, la proporzionale il nostro metodo. Per l’equilibrio va bene perfino il tradimento, insegna l’esprit florentin, e il difensivismo è il modulo del calcio all’italiana. Proprio domenica la maggioranza degli italiani ha deciso che scegliere direttamente i nostri governanti, uno vince e l’altro perde, non fa per noi. E quanto a parole, “consociativismo” non sarà bella, ma “concorrenza” è certamente più brutta.
Le caratteristiche del nostro corredo genetico dalla politica contaminano l’industria, dall’ambito sociale tracimano in quello aziendale. Eppure non è necessario essere famosi consulenti strategici per vedere che è il debole quello che aspira alla parità con il forte, e non viceversa; non è necessario essere negoziatori superpagati per sapere che sedersi ai tavolo delle trattative chiedendo la garanzia della parità equivale ad alzarsi con un accordo che, se va bene, salva la poltrona di qualcuno, l’ego di qualcun altro, e la faccia di tutti.
Pariteticità: la parola gira, le agenzie di stampa la battono, i giornali ci fanno i titoli. Per non far la figura del bambino al passaggio del Re Nudo nessuno osa chiedere: ma che vorrà dire? Stesso numero di passaporti italiani e tedeschi in consiglio? Presidenza come l’aquila bicefala? Noccioli duri delle due società di pari entità? A questa ipotesi,- nella schiena di alcuni consiglieri dev’essere passato un brivido, e la battuta scherzosa di Franco Bernabè – tra Torino e Bonn, metteremo la sede a Vipiteno – ha fatto la giornata.
Ma quanto a comicità, il contributo veniva dalla lettura dei giornali tedeschi: mentre i nostri politici, il nocciolo duro — il Gotha dell’imprenditoria italiana — chiamato ad accompagnare le privatizzazioni di Telecom, e il più famoso manager italiano, tutti cercavano di venderci come un successo la conquista della pariteticità, ponevano le loro ambizioni nel raggiungere un “equal footing” con gli alleati germanici, dalla Suddeutsche Zeitung di martedì si levava un’invocazione e una speranza: che fosse l’azienda italiana privatizzata da un anno e mezzo a introdurre un po’ di efficienza nell’ex monopolista tedesco ancora da privatizzare.
Le aziende competono sul mercato, mica si lavora per fare pari con i propri concorrenti, una guida unitaria diventa ben presto indispensabile. E’ per questo che gli accordi paritetici finiscono o con il divorzio o con la supremazia di uno dei due.
Entrambi i giganti europei delle costruzioni elettriche e ferroviarie nacquero come Società paritetiche; l’Abb, unione tra la svedese Asea e la svizzera Brown Boveri, fu guidata al successo dalla guida dittatoriale di Peter Barnevick; nella Alst- hom, che produce il treno ad alta velocità, l’inglese Gec è passata in minoranza. Le fotografie immortalavano le strette di mano tra i due presidenti di Bell Atlantic e NyneX: in capo a qualche mese c’era solo più quella del capo della Nynex. Tra Fiat e Citroèn ci si fermò sui gradini dell’altare, tra Pirelli e Dunlop fu un doloroso divorzio. Ancora Fiat negoziò per mesi la fusione con Ford Europe, -ed alla fine fu proprio sulla questione di chi doveva comandare che il progetto si arenò. E se non fosse chiaro a tutti che nella fusione Daimler-Chrysler a comandare sono i tedeschi, in Germania sarebbe rivoluzione.
Ma perché andar lontano? Franco Bernabè lo sa meglio di chiunque altro, sono storie di casa Eni. Paritetico era l’accordo Enoxy, tra l’Enichem di Lorenzo Necci e Occidental Petroleum di Armand Hammer. Enimont, una vicenda che rimarrà sempre impressa nella memoria collettiva per la tragedia umana che ne segnò l’epilogo, anche quello era un accordo paritetico. Debole nei suoi presupposti industriali e gravato dalle inframmettenze politiche — inevitabili quando una delle due aziende è pubblica — sfociò nella liquidazione della chimica italiana, e travolse con 30.000 miliardi di debiti il gruppo privato Fcrfin-Montedison. Una pariteticità che insegna una dura lezione: è sempre il privato, appunto, che ha da perderci ad abbracciare un’impresa pubblica. E nel nostro caso pubblica è Deutsche Telekom.
E’ vero che, come scriveva Simrnel, «la tentazione che emana dal denaro non si presenta come un impulso naturale», ma altrettanto innaturale dovrebbe essere la coazione a ripetere errori del passato.
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aprile 21, 1999