Finiscono male i matrimoni alla pari

aprile 21, 1999


Pubblicato In: Giornali, Il Messaggero


Il primo a profferire la parola fu, se non an­diamo errati, Romano Pro­di: fu il presidente designa­to della Commissione Eu­ropea, interpellato sulle prime voci di un possibile accordo tra Telecom Italia e Deutsche Telekom, a parlare di “pariteticità”, condizione capace di ren­dere vantaggioso ogni ac­cordo tra le due società. Da allora “pariteticità” è entrata nel circuito della comunicazione, è diventa­ta il faro di ogni politica, l’obiettivo di ogni piano, il vincolo di ogni accordo.

Paritetico, dunque equi­librato, dunque giusto: i piatti della bilancia esatta­mente alla stessa altezza come nelle monete da 100 lire. La parola ci suona ca­rica di valenze positive; non per nulla mediare è la nostra vocazione, la terza via la nostra attrazione, la proporzionale il nostro me­todo. Per l’equilibrio va bene perfino il tradimen­to, insegna l’esprit floren­tin, e il difensivismo è il modulo del calcio all’italia­na. Proprio domenica la maggioranza degli italiani ha deciso che scegliere di­rettamente i nostri governanti, uno vince e l’altro perde, non fa per noi. E quanto a parole, “consocia­tivismo” non sarà bella, ma “concorrenza” è certa­mente più brutta.

Le caratteristiche del nostro corredo genetico dalla politica contamina­no l’industria, dall’ambito sociale tracimano in quel­lo aziendale. Eppure non è necessario essere famosi consulenti strategici per vedere che è il debole quello che aspira alla pari­tà con il forte, e non vice­versa; non è necessario es­sere negoziatori superpa­gati per sapere che sedersi ai tavolo delle trattative chiedendo la garanzia del­la parità equivale ad alzar­si con un accordo che, se va bene, salva la poltrona di qualcuno, l’ego di qual­cun altro, e la faccia di tutti.

Pariteticità: la parola gi­ra, le agenzie di stampa la battono, i giornali ci fan­no i titoli. Per non far la figura del bambino al pas­saggio del Re Nudo nessu­no osa chiedere: ma che vorrà dire? Stesso numero di passaporti italiani e te­deschi in consiglio? Presi­denza come l’aquila bice­fala? Noccioli duri delle due società di pari entità? A questa ipotesi,- nella schiena di alcuni consiglie­ri dev’essere passato un brivido, e la battuta scher­zosa di Franco Bernabè – tra Torino e Bonn, met­teremo la sede a Vipiteno – ha fatto la giornata.

Ma quanto a comicità, il contributo veniva dalla lettura dei giornali tede­schi: mentre i nostri politi­ci, il nocciolo duro — il Gotha dell’imprenditoria italiana — chiamato ad accompagnare le privatizza­zioni di Telecom, e il più famoso manager italiano, tutti cercavano di vender­ci come un successo la conquista della paritetici­tà, ponevano le loro ambi­zioni nel raggiungere un “equal footing” con gli al­leati germanici, dalla Sud­deutsche Zeitung di marte­dì si levava un’invocazio­ne e una speranza: che fos­se l’azienda italiana privatizzata da un anno e mez­zo a introdurre un po’ di efficienza nell’ex monopo­lista tedesco ancora da pri­vatizzare.

Le aziende competono sul mercato, mica si lavo­ra per fare pari con i pro­pri concorrenti, una guida unitaria diventa ben pre­sto indispensabile. E’ per questo che gli accordi pari­tetici finiscono o con il di­vorzio o con la suprema­zia di uno dei due.

Entrambi i giganti euro­pei delle costruzioni elet­triche e ferroviarie nac­quero come Società parite­tiche; l’Abb, unione tra la svedese Asea e la svizzera Brown Boveri, fu guidata al successo dalla guida dit­tatoriale di Peter Barnevi­ck; nella Alst- hom, che produce il treno ad alta velocità, l’inglese Gec è passata in minoranza. Le fotografie immortalavano le strette di mano tra i due presidenti di Bell At­lantic e NyneX: in capo a qualche mese c’era solo più quella del capo della Nynex. Tra Fiat e Citroèn ci si fermò sui gradini del­l’altare, tra Pirelli e Dunlop fu un doloroso di­vorzio. Ancora Fiat nego­ziò per mesi la fusione con Ford Europe, -ed alla fine fu proprio sulla que­stione di chi doveva comandare che il progetto si arenò. E se non fosse chia­ro a tutti che nella fusione Daimler-Chrysler a co­mandare sono i tedeschi, in Germania sarebbe rivo­luzione.

Ma perché andar lonta­no? Franco Bernabè lo sa meglio di chiunque altro, sono storie di casa Eni. Paritetico era l’accordo Enoxy, tra l’Enichem di Lorenzo Necci e Occiden­tal Petroleum di Armand Hammer. Enimont, una vicenda che rimarrà sem­pre impressa nella memo­ria collettiva per la trage­dia umana che ne segnò l’epilogo, anche quello era un accordo paritetico. De­bole nei suoi presupposti industriali e gravato dalle inframmettenze politiche — inevitabili quando una delle due aziende è pubbli­ca — sfociò nella liquida­zione della chimica italia­na, e travolse con 30.000 miliardi di debiti il grup­po privato Fcrfin-Monte­dison. Una pariteticità che insegna una dura le­zione: è sempre il privato, appunto, che ha da perder­ci ad abbracciare un’im­presa pubblica. E nel no­stro caso pubblica è Deut­sche Telekom.

E’ vero che, come scri­veva Simrnel, «la tentazio­ne che emana dal denaro non si presenta come un impulso naturale», ma al­trettanto innaturale do­vrebbe essere la coazione a ripetere errori del passa­to.

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