Le polemiche sono sacrosante: da quelle contingenti, sulla tempestività e l’adeguatezza degli interventi di soccorso, sull’informazione durante e dopo il disastro, su chi deve finanziare la ricostruzione; a quelle globali, sull’inefficienza della macchina amministrativa, su un modello di sviluppo che ha considerato semre la natura come un’ esternalita’ immediatamente appropriabile.
Sacrosanto risalire alle cause e alle colpe: ma a chi ha orso casa, poderi, aziende, non possiamo offrire la testa di qualche sottosegretario, né la vaghezza di responsabilità collettive: per cui alla fine chi ha sofferto sarebbe pure colpevole. È vero che il governo Berlusconi sembra non perdere occasione per confermare la sua inefficienza e la sua natura vien da dire quasi classista: valga per tutte la proposta di finanziare la ricostruzione riappropriandosi dei fondi del fiscal drag: ma, nell’interesse proprio di chi soffre, dobbiamo andare oltre le provocazioni.
Vengono in mente tre considerazioni.
1. Disastro del Piemonte, disastro della finanza pubblica. L’accoppiamento non è casuale: è per il disastro dei conti pubblici, e per la politica che si è imboccata per porvi riparo, che in Italia non si pensa più alle infrastrutture. Dato che siamo in epoca di finanziaria sarà il caso di riportare qualche dato. Secondo la Confindustria, quanto a dotazione di infrastrutture, fatto 100 l’indice europeo, l’Italia è a quota 88. Gli stanziamenti di competenza per impegni assunti negli ultimi 3 anni per investimenti in infrastrutture sono diminuiti del 45 per cento. I lavori di importo inferiore al miliardo, cioè quelli di piccola manutenzione, sono aumentati del 36 per cento; quelli superiori ai 10 Mld sono diminuiti del 47 per cento. Da 20 anni non si fanno più grandi opere che non siano di cementificazione. Negli ultimi anni gli unici investimenti infrastrutturali si chiamano Mondiali di Calcio e Colombiane: cioè Anas. Le infrastrutture luogo di sfruttamento e di corruzione anziché di investimento. Di fronte all’emergenza, il governo Ciampi si è preoccupato di abbattere i costi: questo governo non ha trovato di meglio che sospendere la legge Merloni. Ma il dato di fondo è un altro: la scelta dell’uscita graduale dall’emergenza debito pubblico comporta, senza che neppure ci si rifletta troppo sopra, 1′ abbattimento progressivo di ogni spesa infrastrutturale. Avviene ormai da tre anni: invertire questo ciclo comporterebbe la revisione profónda di tutta una filosofia della spesa (e dell’entrata) pubblica.
2. Storie di disastri, storia di ricostruzioni. Se si contrappongono le esperienze del Friuli a quelle dell’Irpinia e del Belice non è per fare del moralismo regionalistico. Ma è difficile negare la correlazione tra i diversi esiti si quelle vicende, e il senso dello Stato nelle regioni in cui si sono svolte. Il Piemonte è il cuore storico dello Stato. Ha ragionr Deaglio quando chiede che il processo di ricostruzione parta dal Piemonte: incominciando dal reperimento delle risorse, ma anche lasciando alle energie e competenze locali libertà da ogni vincolo burocratico centralista. Si crei una struttura in cui le imprese, industriali e agricole, le competenze scientifiche (il centro di calcolo della Regione dispone di strumenti di prim’ordine per la mappatura idrica e geologica del territorio) e le forze locali abbiano la possibilità di esprimere forme nuove di collaborazione, il senso civico della identità collettiva, stimolo alla capacità di autorganizzazione dei cittadini. Sembra il caso di ricordare che fu proprio il Piemonte, nell’ambito del piano di solidarietà nazionale, a offrire al Friuli il piano urbanistico per la ricostruzione: e fu una storia di entusiasmi, di professionalità e di successo.
3. Il disastro del Piemonte non è una calamità ‘naturale’: è anche la conseguenza della mancanza di una cultura che valga a contrastare il dissesto idrogeologico. Anche qui, i tagli previsti in legge finanziaria agli investimenti in ricerca sono l’aggravante sul lato culturale della politica delle infrastrutture. Culturale è la miopia di una politica che sembra non essere più capace di pensare in grande, alle conseguenze di lungo periodo; ancor più oggi, dominata com’è dalla volontà di occupare, e assillata dall’ansia di rincorrere: magari proprio con un condono edilizio.
I problemi ecologici sono per loro natura complessi, perché sistemici: sviluppo agricolo, urbanizzazione, viabilità, sviluppo industriale, trasporti pubblici, sono tutti fenomeni correlati tra loro. I problemi ecologici non sono problemi naturali, ma problemi sociali: anche questi, e per la stessa ragione, sono complessi. Non si può risolverli spaccando la società, inventandosi contrapposizioni ideologiche, esasperando le differenze, ‘governando contro’. Dobbiamo impe-dire almeno che a chi è stato colpito si faccia l’insulto di una campagna elettorale.
novembre 10, 1994