La rigidità del mercato del lavoro, il carico fiscale sul lavoro, la difficoltà a realizzare una significativa mobilità dei lavoratori: i problemi dell’Europa
Per le riforme strutturali che l’Italia attende da anni, siamo ormai a un punto decisivo. Ieri, ufficialmente il Consiglio dei ministri non se n’è occupato. In realtà, tutti sanno che il Governo si trova a una svolta: da una parte definire il contenuto delle deleghe sul fisco, entro il 16 novembre; dall’altra, mantenere in piedi il confronto con le parti sociali senza mostrare il viso dell’arme ai sindacati che, proprio ieri, hanno chiesto un incontro personale a Berlusconi per tentare di evitare nella maggior misura possibile che l’esercizio delle deleghe porti una ferita insanabile alla concertazione come fu definita da Ciampi.
Una cosa però è sicura. Sbaglia chi non legge questa vicenda italiana nel quadro di un più ampio contesto dell’Europa continentale. In realtà, chiunque sia al Governo, i problema sono analoghi.
Il pugno che Antonio D’Amato, invocando le deleghe, sembra mostrare a Sergio Cofferati rischi di apparire rose e fiori in confronto al durissimo scambio su Le Monde tra Henry Emmanuelli, Presidente della Commissione Economia e Finanze all’Assemblée Nationale, e Jean Peyrevalade, Presidente del Crédit Lyonnais e influente membro del Medef, l’associazione del Patronat francese. All’origine del contrasto c’è una petizione dei 55 maggiori industriali francesi contro il piano governativo di “modernizzazione sociale”, che intende ulteriormente ampliare le tutele offerta al lavoro dipendente. L’eleganza della scrittura e l’esprit de géometrie rendono ancor più feroci i fendenti, tanto da tirare in ballo questioni, diciamo così, debolmente correlate con il mercato del lavoro: quali i paracadute d’oro e le generose stock option dei capi -aziende che poi ricorrono a pesanti licenziamenti, come nelle compagnie aeree e in Moulinex; e perfino il naufragio della petroliera Erika.
La polemica indica quanto angosciante stia diventando ogni giorno di più la preoccupazione per la crisi economica incombente. In Francia Alcatel prevede tagli per 32.500 posti di lavoro su un totale di 110.000 dipendenti. Ma il problema non è solo francese. Nell’Europa dell’euro si sono registrati da inizio anno 230.000 licenziamenti che diventano 373.000 nell’unione Europea. In Germania le quattro maggiori banche hanno annunciato tagli di 27.000 dipendenti; la percentuale di disoccupati sta sfiorando i 4 milioni e sarà praticamente impossibile per Schroeder mantenere la promessa di ridurli a 3,5 milioni.
Ormai c’è consenso generalizzato nell’individuare le cause che aggravano il problema: la rigidità del mercato del lavoro, il carico fiscale sul lavoro, la difficoltà a realizzare una significativa mobilità dei lavoratori. Se la disoccupazione nella zona dell’euro è diminuita nei passati 4 anni e se si può pensare che pur con la crisi non si torni al livello del 12,7% toccato nel dicembre ‘97 è proprio grazie a quel po’ di flessibilità che si è introdotta, in particolare nel part time e nei lavori a tempo determinato.
Bisogna riconoscere che in Italia la sinistra, che quand’era al governo aveva rotto il ghiaccio su part time e lavoro interinale, oggi che è all’opposizione sta assumendo un atteggiamento non di chiusura preconcetta verso le proposte del libro bianco di Maroni, come testimoniano gli interventi, tra gli altri, di Tiziano Treu e Michele Salvati. Certo, In Italia come in Francia la flessibilità in uscita continua a essere la pietra di paragone per alcuni, la pietra dello scandalo per altri: come si addice a un tema in cui i valori simbolici contano almeno altrettanto di quelli contrattuali. La differenza di tono si deve probabilmene al fatto che in Francia è al potere una gauche plurielle, alle prese con i problemi della forzatura ideologica delle 35 ore anche nei piccoli esercizi; mentre in Italia all’opposizione c’è una sinistra di governo che, anche nella questione internazionale, ha dimostrato di sapere affrontare anche delle perdite pur di resistere alle tentazioni populiste
Anche su un altro fronte, quello delle regole di corporate governance, qualcosa si sta muovendo, non solo per effetto della globalizzazione ma anche perché la crisi obbliga tutti a una maggiore efficienza. Nel cuore del capitalismo renano la Daimler Benz alla prese con la difficile integrazione della Chrysler deve mettere d’accordo la tipica struttura di controllo duale tedesca (consiglio di sorveglianza con compartecipazione dei lavoratori e consiglio di amministrazione) con le strutture di governance statunitensi. Traendo lezione da questo caso Gerhardt Schroeder ha istituito la commissione Kodex, qualcosa di simile alle nostre commissioni Draghi e Mirone, o alla commissione Cadbury in Inghilterra: 13 personaggi tra cui figurano i grandi nomi dell’economia tedesca, giuristi, un rappresentante del sindacato e uno degli azionisti dovranno stabilire entro febbraio 2002 nuove regole di corporate governance. Nel frattempo il Bundestag ha approvato o sta approvando 4 leggi di grande rilevanza a incominciare da quella sull’OPA dopo che i parlamentari tedeschi – con il voto favorevole degli euro -parlamentari di Forza Italia a- avevano bloccato la direttiva europea proprio su questa materia..
Contano i cambiamenti culturali. A differenza degli Stati Uniti, l’Europa ha un sistema di protezioni sociali che smorza le oscillazioni dovute all’inversione del ciclo economia. Se in Francia, dopo che l’ideologia delle 35 era sta temperata dal pragmatismo del calcolo su base annuale, la crisi induce tutti a un magio realismo; se in Germania i legami – non sempre limpidissimi – tra industria e istituzioni finanziarie cedono il campo al rapporto con gli azionisti, in modo particolare quelli istituzionali; se in tutta Europa si afferma l’idea che le aziende assolvono al meglio anche il proprio compito sociale se si concentrano a creare valore; se da noi il governo si impegna sulle pensioni, e le parti sociali sulle riforme del mercato del lavoro: se tutto questo accadrà, l’Europa potrebbe riuscire a contenere i danni della crisi in atto. Evitando di incorrere nella temibile tentazione di cui si avvertono abbondanti tracce sui media da due mesi a questa parte: se l’Europa sta fallendo nell’obbiettivo che era stato preannunciato, sostituirsi agli USA nel ruolo di locomotiva della crescita mondiale, non è colpa dell’11 Settembre. Ma dei problemi strutturali irrisolti che ci hanno fatto crescere meno prima e che rischiano di farci crescere ancor meno oggi.
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novembre 9, 2001