Fare profitti.
L’etica dell’impresa.
di Franco Debenedetti
2020, Marsilio
Come era accaduto durante la Grande Depressione, il capitalismo è oggi sotto attacco, tra voci critiche che vorrebbero «resettarlo» e nuove improbabili forme di responsabilità sociale attribuite alle aziende. Nell’epoca post-rivoluzione digitale, in cui sono migliorate le comunicazioni e si sono moltiplicati i canali di accesso all’informazione, politici ed economisti si domandano se società per azioni e industria finanziaria, vere artefici di questa rivoluzione, siano all’origine dei grandi problemi sistemici. Che fare, allora? «Cambiare tutto, modificare le regole di un capitalismo che ha mantenuto le sue promesse, fare profitti e creare ricchezza per tutti?», si chiede Franco Debenedetti. «No, certo. Ci sono altri sistemi per aumentare i salari minimi, per ridurre le emissioni, per modificare il finanziamento della politica: la certezza della legge e le iniziative delle democrazie».
A cinquant’anni da uno storico articolo in cui il premio Nobel Milton Friedman scrisse che «l’unica vera responsabilità delle imprese è fare profitti», l’autore propone un viaggio al cuore dell’impresa per definirne la natura, i soggetti, i diritti e gli interessi al tempo delle aziende Big Tech e della pandemia. Per leggere e affrontare i cambiamenti in atto, analizza la crisi della produttività, la tendenza al monopolio dei giganti del Web e le ricadute sulla politica, e riflette sul tema della diseguaglianza, tra classi sociali come tra vertici e dipendenti. Se innovazione e concorrenza sono i principi che hanno determinato il successo della società per azioni fin dalla Venezia medioevale, anche oggi favorire la creatività impone di moltiplicare i contatti, di favorire l’incontro di idee e competenze diverse, di esporsi alla concorrenza.
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Francesco Sisci
3 annoe fa
Tutto nasce da un problema concreto-concreto, al cuore dell’Italia prima di ogni cosa – il “tengo famiglia” supplice per quella pietà che fa la piaga cancerosa.
La questione è: che fare con tutti gli attuali parlamentari a cinque stelle, arrivati al potere dal nulla e che nel nulla potrebbero fra poco tornare? Infatti con la riduzione della rappresentanza al parlamento di un terzo e l’atteso dimezzamento dei voti alla formazione politica, il numero di deputati e senatori M5s alle prossime elezioni potrebbero essere al massimo un terzo dell’attuale.
Due terzi sarebbero necessariamente fuori e disoccupati, quindi già urlano “tengo famiglia” declinato in varie forme.
Allora tanto vale azzerali tutti, mantenere la promessa dei due mandati, e sostituirli con coloro che aspettano fuori, come ha annunciato Beppe Grillo, guru del movimento.
Ma che fare di quelli di ora? Luigi Di Maio, 34enne attuale ministro degli esteri, seguirà il destino di Irene Pivetti, presidente della Camera a 25 anni e ora quasi VIP ectoplasmatica dello spettacolo?
Il neo capo dei M5s, l’ex premier Giuseppe Conte pare stia meditando e mediando.
Intanto, la Casaleggio associati, un altro pezzo importante del M5s, deve essere gestita anch’essa. Chiede il saldo di debiti, e dietro i soldi c’è una re-definizione del suo mandato e i suoi poteri. Erede legale e morale di GianRoberto, il figlio Davide pare non abbia il bernoccolo della politica né ha le visioni “new internet age” del padre.
Con Davide Casaleggio, Conte discute e minaccia cause. Ma i pentastellati finirebbero a pezzi se decidesse di risolvere la questione nelle aule di un tribunale.
Questi elementi moltiplicano ed esasperano le già mille tensioni ideali e personali nel M5s tanto che forse esso potrebbe presto dissolversi nel nulla.
In effetti, al di là dei contratti stipulati dai singoli con la Casaleggio e dell’autorevolezza di Grillo, manca al movimento l’elemento di tutti i partiti del mondo – l’organizzazione.
Il caso dei M5s è il più estremo ed eclatante ma tutti gli altri partiti soffrono in varia misura degli stessi mali.
Difettano a ognuno gli istituti di formazione che in Usa sono i think tank, in Cina è la Scuola di Partito, entrambi autentici centri nevralgici di lungo termine della nazione. E manca la cooptazione dei migliori, che in ogni paese è parte integrante e costante (non occasionale) del ruolo della politica e organizza e canalizza le esigenze del popolo e le spinte del futuro.
Senza formazione o cooptazione i partiti si avvitano intorno a parlamentari il cui unico scopo è mantenere il proprio posto di lavoro, come fossero operai del Siderurgico di Taranto, che avvelenerà gli altri ma intanto “io tengo famiglia”.
Così i partiti, non solo gli M5s, si stanno dissolvendo, perdono contatto con il popolo che infatti spesso non vota, né capiscono i tempi, che infatti li travolgono. Ciò diventa un problema di sistema.
La costituzione italiana si regge sulla base dei pilastri dei partiti, che nella loro dialettica aperta avrebbero dovuto impedire l’accentramento di potere avvenuto coi fascisti o minacciato dai comunisti.
Senza partiti lo stato stesso è spogliato e il sistema non gira creando un vuoto pneumatico in cui c’è un’anarchia di fatto che apre a virate autoritarie, dato che in politica, come in fisica, il vuoto non resiste.
Questo genera ed è generata, in un circolo vizioso, dalla carenza di politica estera e carenza di grandi imprenditori patriottici.
Esempio lampante di mancanza di politica estera è la gestione del recente caso di spionaggio a favore della Russia. Di Maio ha affermato di auspicare che questa non dia origine a una escalation, probabilmente non rendendosi molto conto di quel che succede.
Infatti questa è una escalation. Casi di spionaggio simili non si trovano da oltre un secolo, se ha ragione Germano Dottori citando la vicenda dell’ammiraglio italiano scoperto spia austriaca all’alba della prima guerra mondiale.
Se il caso è esploso è forse perché l’Italia è terreno di caccia di spie di ogni tipo e di ogni paese, vicino e lontano. Sentono il disfacimento in atto e le forze di sicurezza cercano di reggere la situazione pur senza un indirizzo politico chiaro da anni.
Quindi questa operazione contro i russi che significa? Dice che l’Italia oggi sta ridefinendo la sua politica estera oppure è un segnale solo contro i russi colpevoli di essere eccessivamente attivi, o entrambi o altro?
La politica estera poi è funzione della politica interna e degli interessi nazionali che si determinano anche a partire dalle forze produttive, ma qui ci sono ancora altri problemi.
I grandi imprenditori fuggono all’estero anche per ragioni fiscali. Questione di sopravvivenza, giusta dal loro punto di vista. Ma fuori dall’Italia aziende come Fiat, Ferrero o Pirelli sono più deboli. Con l’indebolimento dello stato Italia e la progressiva evanescenza del proprio “marchio nazionale” i marchi di impresa diventano più eterei, galleggianti.
Qui il gatto si morde la coda. Lo stato ha bisogno di imprese, senza di esse si svuota, e le imprese hanno bisogno di uno stato che li aiuti a crescere.
Né l’industria statale fa meglio. Dopo la fine dell’IRI, le vecchie aziende a partecipazione statale sono state assemblate e scorporate più volte senza forse enormi successi. Né il recente rilancio di Cassa Depositi e Prestiti sembra avere avuto un impulso miracoloso, anzi, visto che le sue azioni spesso non hanno obbedito a logiche di mercato ma solo di potere.
È un corto circuito quindi fatale tra partiti, istituzioni dello stato, imprese, politica estera in cui manca la capacità di pensare, o forse meglio: sembra essersi persa in molti di noi la capacità di ascoltare sul serio, essere consoni alla realtà, parafrasando Papa Bergoglio in un suo saggio[1] e quindi acquisire la capacità di rispondere alla realtà in maniera adeguata.
Scrive il papa: “La realtà rivendica sé stessa, perché «non viene trattata come le spetta». Nella realtà c’è un dinamismo che è capace di difenderne la «comprensibilità» quando si arriva a un certo limite di incomprensibilità.”
La realtà in questo caso è che il mercato e la politica devono essere retti da regole apparentemente spietate in realtà pietose, come ricorda anche Franco Debenedetti nel suo Fare profitti. Serve proprio per mantenere la pietà verso le tante persone di carne e ossa che devono avere occasioni di rifarsi una vita e non semplicemente trascinarsi in una vita sempre più stentata.
Marcello Messori
3 annoe fa
1. Il volume di Franco Debenedetti, Fare profitti. Etica dell’impresa (Marsilio: Venezia 2021), è un testo di rilevante interesse perché attraversa, con chiavi di lettura spesso originali e con un apprezzabile sforzo di linearità espositiva, svariati punti di snodo nella storia recente dell’analisi economica. La ricchezza del volume inviterebbe a soffermarsi su molteplici passaggi teorici che l’autore affronta per, poi, utilizzarli come base di valutazione rispetto a importanti e attuali problemi di politica economica. Così è, per esempio, per il suo esame dei limiti dei mercati finanziari europei e per la sua denuncia di alcune peculiarità negative del settore bancario italiano; oppure per la sua analisi dei processi di innovazione digitale e della loro incidenza sull’organizzazione del lavoro e sulla nostra vita quotidiana. Questa impostazione consente anche all’autore di affrontare, nell’ultima parte del volume, l’impatto dell’attuale pandemia e le possibili conseguenze di medio periodo.
E’ evidente che, dovendo confrontarsi con uno spettro di temi molto ampio, ogni lettore accumuli punti di assenso e punti di dissenso rispetto alle analisi proposte nel libro. Per esempio, nel mio caso, ho trovato poco convincenti le argomentazioni offerte da Debenedetti per negare che l’attuale forma di capitalismo dei paesi avanzati sia affetta da un orizzonte temporale troppo corto. Ritengo invece che questa distorsione dell’orizzonte temporale, schiacciato sul breve termine, sia così pervasiva nei nostri attuali sistemi sociali da aver contaminato sia le strategie delle imprese che le scelte degli attori politici. Penso, per giunta, che le analisi delle diseguaglianze e del possibile contrasto di tale piaga sociale, proposte da Debenedetti, colgano solo un aspetto di un problema drammatico e molto variegato.
2. L’obiettivo di questa mia breve riflessione critica sul volume di Franco Debenedetti è, però, diverso. Vorrei infatti soffermarmi su un unico punto generale per provare, in modo forse un po’ provocatorio, che la tesi fondamentale dell’autore può essere ribaltata. Parafrasando Milton Friedman, Debenedetti sostiene che l’impresa capitalistica adempie al suo compito sociale e soddisfa i propri principi etici solo se persegue la massimizzazione del profitto. Di conseguenza, il libro mira a provare che l’impostazione friedmaniana così come successivi e interessanti sviluppi della teoria economica (individuati nella ‘teoria dei contratti’) mostrano la dominanza analitica e fattuale della cosiddetta shareholder value rispetto alla stakeholder value, ossia la dominanza del principio della massimizzazione del valore attuale per gli azionisti di ogni data impresa rispetto al principio della composizione fra i contrastanti interessi propri all’eterogeneo insieme di quanti partecipano alla vita di quella stessa impresa.
La mia argomentazione è che, in modo inintenzionale, l’analisi dell’autore finisca per provare la tesi esattamente opposta: l’incongruenza di optare per la shareholder value rispetto alla stakeholder value.
3. Per provare in modo sintetico la tesi appena enunciata, prendo le mosse dalla frase di apertura del primo capitolo della prima parte del volume. Debenedetti afferma: “la società assegna all’impresa il compito di produrre ricchezza; questa è […] la sua prima e sola responsabilità” (p. 25). Ritengo che nessun economista possa dissentire da un’affermazione del genere, date due condizioni. La prima è che sia corretto assimilare il concetto di ricchezza alla cumulata dei flussi di valore aggiunto o, se si preferisce, dei flussi di reddito netto derivanti dall’attività dell’apparato produttivo di un determinato sistema economico nel corso del tempo. La seconda condizione è che compito dell’impresa sia quello di utilizzare, in modi efficienti, le risorse produttive disponibili per creare reddito netto; ma che, così facendo, l’insieme delle imprese debba anche limitare la creazione di esternalità negative (per esempio, inquinamento) in quanto – a livello aggregato – tali esternalità si traducono in costi che riducono il reddito netto complessivo.
E’ essenziale notare che, letta nel senso appena specificato, l’affermazione di Debenedetti non ipoteca in alcun modo le quote di distribuzione del reddito netto fra i diversi aggregati sociali. Ciò dovrebbe, del resto, essere conforme con l’approccio analitico di Friedman (ossia, con l’approccio ortodosso). E’ ben noto che la microeconomia tradizionale si basa sul Primo teorema dell’economia del benessere e, in vigenza di alcune condizioni restrittive (in particolare, preferenze ben conformate degli agenti), sul Secondo teorema dell’economia del benessere. I due teoremi implicano, fra l’altro, che l’efficienza nell’allocazione delle risorse produttive non influenza e non viene influenzata dalla distribuzione del reddito netto fra i vari aggregati sociali. Di conseguenza, l’approccio ortodosso appare neutrale rispetto alla ripartizione del reddito netto e della ricchezza e, dunque, non giustifica alcuna discriminazione fra shareholder value e stakeholder value che attiene, appunto, alla sfera della distribuzione.
La macroeconomia classica di Lucas e Sargent ha dimostrato, fin dagli inizi degli anni Settanta del secolo scorso, che lo schema analitico di Friedman non è micro-fondato. Ciò contribuisce a spiegare perché lo stesso Friedman trascuri i due teoremi dell’economia del benessere e attribuisca all’impresa il compito di massimizzare una specifica quota distributiva, appunto il profitto, anziché il reddito netto. Seguendo Friedman, nei due primi capitoli del suo libro anche Debenedetti cade nella stessa impropria assimilazione. Pertanto, a dispetto del fatto che i due Teoremi dell’economia del benessere attestano l’irrilevanza della distribuzione del reddito netto per l’allocazione efficiente delle risorse produttive, egli ne inferisce che l’approccio ortodosso sancisce la dominanza dello shareholder value rispetto allo stakeholder value.
La conclusione raggiunta può essere criticata mediante due obiezioni. La prima obiezione è che la teoria ortodossa della distribuzione del reddito è strettamente collegata alla produzione mediante la teoria del valore. Quest’ultima assimila lavoro e capitale come fattori produttivi, provando che l’eguaglianza fra produttività marginale del capitale e profitto è compatibile con il principio della massimizzazione dello stesso profitto. Pertanto, ciò che non poteva essere provato con riferimento all’allocazione delle risorse produttive trova fondamento in termini di teoria marginalista della distribuzione del reddito. La seconda obiezione consiste nel fatto che, massimizzando il proprio profitto, ogni impresa si assicura le condizioni ottimali per la riproduzione della sua attività e adempie così al suo compito in una prospettiva dinamica. Il problema è che nessuna di tali due obiezioni è analiticamente robusta. La prima si fonda su un concetto di capitale che, come è noto da molti anni nella teoria economica, dà luogo a insuperabili incoerenze logiche. La seconda rimanda a un’analisi dinamica che, come emerge anche dalle difficoltà di esaminare l’accumulazione del capitale nel modello tradizionale analiticamente più avanzato (il modello walrasiano), non trova fondamento nell’approccio ortodosso.
4. Anche se Franco Debenedetti non rende espliciti i problemi di analisi appena discussi, implicitamente riconosce i limiti dell’approccio ortodosso tanto da confrontarsi con una più recente e sofisticata teoria microeconomica non-walrasiana: la teoria dei contratti che interpreta le relazioni fra diversi aggregati sociali nei termini di rapporti di agenzia. Il rapporto è fra un ‘principale’, che di norma ha il potere di definire le condizioni contrattuali, e uno o più ‘agenti’, che di norma hanno vantaggi informativi o sfruttano l’incompletezza del contratto quando si tratta di soddisfare clausole stipulate. Nell’ottica del ragionamento fin qui svolto, il ricorso alla teoria dei contratti è dirimente rispetto alla tesi fondamentale del volume di Debenedetti. Quest’ultimo demanda, infatti, a tale teoria il compito di provare la dominanza dello shareholder value rispetto allo stakeholder value.
La conferma dell’ultima affermazione è data dal fatto che l’autore utilizza uno dei contributi seminali di questo filone teorico (il saggio del 1976 di Jensen e Meckling) come se rappresentasse il manifesto dello shareholder value. Il problema è che, anche in tale caso, l’autore cade in un’inferenza infondata. La ragione, che spiega il riferimento privilegiato di Jensen e Meckling (1976) alla massimizzazione del profitto di impresa, dipende dal loro esclusivo esame dei rapporti di agenzia fra azionisti e management. In questi specifici rapporti l’obiettivo del ‘principale’, rappresentato dall’insieme degli azionisti, è di disegnare un contratto che minimizzi la possibile estrazione di benefici privati da parte degli ‘agenti’, rappresentati dal top management. Pertanto, il contratto efficiente deve massimizzare i profitti per il ‘principale’. Tuttavia, come sono pronti a riconoscere gli stessi Jensen e Meckling sulla scorta delle precedenti analisi di Williamson e di altri neo-istituzionalisti e come ricorda lo stesso Debenedetti, l’impresa va trattata come un insieme (un fascio) di contratti. Ciò significa che l’impresa è costituita da un insieme di diversi rapporti di agenzia.
Sotto il profilo analitico, ciò significa che il management di una data impresa, che funge da ‘agente’ nel rapporto con gli azionisti, diventa il ‘principale’ nelle relazioni contrattuali con gli agenti-lavoratori (come è mostrato da molteplici contributi della teoria dei contratti applicata al mercato del lavoro). D’altro canto, una volta conclusi i loro contratti con il managemente e dopo aver così percepito un reddito, i lavoratori assumono anche la veste di consumatori diventando il ‘principale’ nei confronti degli azionisti quali rappresentanti dell’agente-impresa. Per di più, gli stessi azionisti e/o il management continuano a rappresentare l’agente-impresa nei rapporti con i vari aggregati di fornitori, che fungono da ‘principale’.
Questo complesso insieme di rapporti contrattuali fissa la forma e il livello delle remunerazioni e i valori di scambio (prezzi relativi) che assicurano un equilibrio fra i contrastanti interessi di tutti gli eterogeni partecipanti ai molteplici rapporti di agenzia che caratterizzano la vita di un’impresa. Gli equilibri possibili sono svariati (equilibri multipli); eppure taluni sono più efficaci oppure più efficienti di altri. Un’appropriata combinazione fra i diversi contratti dovrebbe essere in grado di selezionare equilibri ‘buoni’ se non l’equilibrio migliore. Ma ciò significa che, almeno stando alla definizione offerta dalla teoria dei contratti, l’impresa è tenuta a perseguire un’equilibrata composizione fra i contrastanti interessi di tutti gli aggregati sociali che partecipano alla sua attività o che la condizionano per via diretta. Detto in altri termini, e parafrasando le parole con cui Debenedetti apre il primo capitolo del suo volume, il sistema economico capitalistico assegna all’impresa “il compito di produrre ricchezza” e di ripartirla secondo la più efficiente o efficace armonizzazione degli interessi conflittuali fra i suoi svariati partecipanti. L’etica dell’impresa è, così, ricondotta al perseguimento dello stakeholder value.
5. Si sarebbe tentati di concludere che il volume di Debenedetti finisce, di fatto, per essere un manifesto a favore dello stakeholder value. Una simile conclusione prescinde, tuttavia, dalle critiche che l’autore muove a tale impostazione. Egli sostiene che, diversamente dallo shareholder value, lo stakeholder value non fonda la determinazione delle quote distributive del reddito su una metrica analitica ma la demanda a decisioni arbitrarie che sono vulnerabili all’intrusione di interessi personali o di improprie sovradeterminazioni politiche.
Anche in questo caso, penso che l’autore sottovaluti i problemi aperti nella teoria economica ortodossa e – più in generale – in molti punti alti della storia dell’analisi economica e che non colga appieno l’innovatività della teoria dei contratti.
Quanto al primo punto va rilevato che la metrica analitica, cui Debenedetti si richiama per giustificare la massimizzazione del profitto e la connessa determinazione delle quote distributive, è fondata sulla specifica teoria del valore dell’approccio ortodosso. Si è tuttavia già accennato, ed è noto da tempo, che quella teoria del valore – così come le diverse teorie classiche e marxiane del valore – sono minate da insuperabili aporie logiche che le rendono analiticamente inutilizzabili (al riguardo, basti riferirsi ai lavori di Napoleoni negli anni settanta del secolo scorso). Di conseguenza, almeno dal punto di vista teorico, la metrica analitica dello shareholder value è un fallimento. Viceversa (e arriviamo così al secondo punto), in alcuni filoni della teoria dei contratti (si vedano i lavori di Hart e Moore fra la fine degli anni ottanta e l’inizio degli anni novanta), si coglie il problema dell’indeterminatezza nella distribuzione delle quote distributive e nella connessa fissazione del potere di acquisto attribuite dall’intreccio delle clausole contrattuali ai vari attori che partecipano ai rapporti di agenzia costitutivi dell’impresa. Infatti, Hart e Moore riconoscono che le clausole contrattuali lasciano un reddito residuo; e che, quindi, occorre definire una regola per l’attribuzione di tale residuo (che può essere quantitativamente rilevante). La soluzione proposta si basa su due passaggi: il reddito residuo va attribuito a chi detiene i diritti di proprietà, ossia agli azionisti nel caso dell’impresa; l’attribuzione efficiente dei diritti di proprietà per una data attività richiede che tali diritti siano attribuiti al cosiddetto ‘agente indispensabile’, ossia all’attore che svolge la funzione cruciale per l’organizzazione e la riproduzione dell’attività.
6. L’approdo raggiunto non porta, purtroppo, ad alcuna conclusione pienamente soddisfacente. Esso ci permette di affermare che lo stakeholder value poggia su fondamenti teorici più robusti rispetto allo shareholder value anche con riguardo alla determinazione delle quote distributive. Tuttavia, la stessa impostazione di Hart e Moore denuncia fragilità specie se letta in chiave dinamica.
Allo scopo di esemplificare per i “non addetti ai lavori” il loro concetto di agente indispensabile ossia la loro teoria sull’allocazione efficiente dei diritti di proprietà, i due economisti propongono l’esempio della barca a vela che solca i mari di un oceano con a bordo un ricco uomo d’affari, un abile marinaio e un cuoco. Essi sostengono che, in condizioni di mare calmo, i diritti di proprietà vanno attribuiti a chi può meglio sostenere i costi della crociera (ossia l’uomo d’affari). Se però sopraggiunge una tempesta, è efficiente che tali diritti siano trasferiti al marinaio perché questa nuova allocazione accresce la probabilità di salvare la barca e la vita dei suoi occupanti. Infine, se la tempesta è così drammatica da obbligare all’approdo su un’isola deserta che porta al salvataggio di tutti ma impedisce la ripresa della navigazione, la soluzione più efficiente consiste nel trasferire i diritti proprietari al cuoco ossia a chi sa meglio utilizzare una cambusa sempre più sprovvista di riserve alimentari.
L’esempio rende evidente che, in un mondo dinamico e complesso quale quello attuale, la teoria di Hart e Moore non è praticabile. L’allocazione efficiente dei diritti di proprietà e la conseguente attribuzione del reddito residuo sarebbero così instabili da risultare incompatibili con la continuità di istituzioni e di apparati molto difficili da ‘smontare’ e ‘rimontare’ senza soluzione di continuità. Appare, per esempio, irrealistico individuare la soluzione efficiente in ricorrenti rivoluzioni nel governo di imprese che già sono sottoposte a tensioni e cambiamenti organizzativi a causa di innovazioni tecniche e di pressioni concorrenziali.
Eppure, nonostante i limiti denunciati, l’approccio della teoria dei contratti coglie aspetti cruciali della nostra economia e società. Viviamo in un mondo che è composto da aggregati sociali eterogenei che perseguono obiettivi e interessi conflittuali. L’intricata rete delle relazioni economiche e sociali fra questi aggregati, che può essere mediata e riprodotta solo grazie a continui interventi regolatori e istituzionali, assicura un ambiente aperto al cambiamento. Essa approda, però, a equilibri temporanei solo se si individuano e si praticano compensazioni e compromessi fra i molteplici interessi conflittuali. Detto in altri termini, non esiste un bene comune o un insieme di beni comuni che sia pre-definito e invariante e che rappresenti l’obiettivo già pronto e condiviso da tutti. Tale insieme di beni comuni va faticosamente costruito all’interno delle conflittuali relazioni (di agenzia) fra i diversi attori mediante ripetuti aggiustamenti parziali e va ri-calibrato in funzione dei rapidi mutamenti economico-sociali. In un simile mondo appare quasi pleonastico chiedersi se debba prevalere il lineare shareholder value o l’intricato stakeholder value. A prescindere dalle preferenze di ognuno di noi, solo il secondo è in grado di dotarci di una ‘cassetta degli attrezzi’, seppure approssimativa, per fronteggiare la complessità del mondo in cui viviamo.