Al direttore.
Per una volta non sono d’accordo col mio direttore. Ho letto il tuo pezzo sui pilastri del nuovo processo mediatico: il meccanismo per cui social media e intercettazioni sono un pericolo per la democrazia sarebbe lo stesso, cioè il diritto allo sputtanamento. Invece, secondo me, meccanismo a parte, le differenze sono sostanziali. Differenze di sostanza: i social sono una bacheca su cui tutti possono scrivere, le intercettazioni sono ordinate da un giudice e diffuse da giornali che hanno un direttore responsabile.
Ne deriva una differenza di autorevolezza: quella di un post su Facebook è quella che tu gli attribuisci (ed è tra l’altro tanto minore quanto meno c’è qualcuno che, scartando e censurando, conferisce una certa patente di credibilità a quanto resta); a quella di un’intercettazione ci sono molte ragioni perché venga attribuito il carattere se non di “verità”, di una certa “oggettività”. Il diritto a conoscere e diffondere le intercettazioni vien preteso dai giornalisti per potersi sostituire alla magistratura inscenando un proprio processo. Il diritto a scrivere su Twitter ce l’ha Trump come i suoi avversari, e chi legge lo sa. Differenza dei mezzi per contrastarli: per le intercettazioni è possibile (almeno teoricamente) definire una procedura “garantista”. Per i social media non è possibile, a meno di creare un ministero della verità. Ho letto tutto l’articolo dell’Economist, che è ovviamente molto più articolato del grido della copertina. Brillante la frase di Habermas, “dobbiamo riformare la politica dell’attenzione”: sì, e poi? Molte cose mi sembrano analoghe a quelle che circolavano all’epoca di “televisione cattiva maestra”. Anche dell’idea che l’attenzione crei una bolla, in cui uno vien catturato, ci entra, e non ne esce più, ci sarebbe da dubitare. Dovidowitz, in “Everybody lies”, dimostra, numeri alla mano, che ha più possibilità di entrare in contatto con idee politiche diverse dalle proprie chi naviga su internet rispetto a chi trae le proprie informazioni solo dai contatti con parenti amici colleghi di lavoro ecc. L’Economist non è il solo: il 4 Novembre sul Boston Globe, Jeffrey Sachs scrive come “Big Data and Big Money have subverted our democracy”. Non vorrei fare il Candide, ma ho l’impressione che sono cose che hanno in sé la capacità di generare anticorpi. Anche perché i vari Facebook hanno tutto l’interesse a bloccare sul nascere quelli che vorrebbero risolvere tutto nazionalizzando. Torna utile il paragone con le intercettazioni: più statali di giudici e poliziotti non si può. Un caro saluto.
La risposta del Direttore.
Caro Franco, grazie della lettera ma temo che tu stia sottovalutando un punto importante. Il punto non è la capacità di ciascuno di noi di generare anticorpi ma è l’incapacità di chi veicola contenuti fake (di veicola letame) di essere considerato responsabile delle sue azioni. Il tema della buca delle lettere esiste per Facebook e per altri giganti della tecnologia ed è un problema che si sta provando ad affrontare (Zuckerberg nel giro di dodici mesi è passato dalla posizione di Facebook che non può essere una media company alla posizione di Facebook che deve essere responsabile dei contenuti che veicola, ma siamo ancora all’inizio). Ma come sei il tema della buca delle lettere esiste anche nel nostro paese per quanto riguarda le intercettazioni e per quanto riguarda le vagonate di letame che ogni giorno finiscono sui giornali e che vengono spacciate per grande giornalismo. Se ci pensi bene, insisto, il meccanismo che ha permesso di alimentare questi due modelli distorti sono simili: alla base di tutto c’è l’idea che ci debba essere una nuova forma di democrazia che deve prendere il posto di quella vecchia e chiunque si azzardi a criticare questa nuova forma di democrazia viene considerato come un nemico della democrazia. Come un sostenitore delle modalità del bavaglio. Il problema non sono tanto le intercettazioni o le fake news ma è chi le usa per ottenere un vantaggio. Sono storie diverse, certo, ma sono entrambi due spie di quello che Jaron Lanier ha definito maoismo digitale. Un abbraccio e grazie.
Franco Debenedetti
7 annoe fa
Caro Claudio,
sono ancor meno d’accordo.
Il maoismo è proprio di quelli che agitano il libretto rosso della “verità”, e con quello decidono chi deve andare a zappare i campi e chi no. Sputtanare con i giornali o con il web, tutti i mezzi sono buoni.
Non si tratta di Mao, ma di Montesquieu e di Voltaire.C’è un “potere” dello Stato le cui azioni devono essere definite dagli altri poteri, in modo che non vengano lesi i diritti dei cittadini, di quelli che vogliono sapere e di quelli che non devono essere sputtanati.E ci sono le opinioni che hanno diritto di essere espresse, quelle “vere” e quelle non vere: queste, che proprio per il fatto di essere confutate, dànno a quelle “vere” la popperiana dimostrazione di essere tali.
Poi ci sono le attività illegittime: l’hackeraggio, la “disinformatia” in occasione delle elezioni, le infiltrazioni, le quinte colonne. Attività conosciute, così come i mezzi per individuarle e respingerle. In questo Zuckerberg deve collaborare: ma la sua paura e la strategia che intende seguire per proteggere i suoi interessi non hanno nulla a che fare con una dimostrazione logica.
In fondo la cosa è perfino banale: non c’è un direttore responsabile che firma i tweet, e non ci potrà mai essere, i social non sono un giornale.
Vincenzo Zeno-Zencovich
7 annoe fa
Fake news, un falso problema perché non esistono ‘notizie vere’
Le “fake news” sono una “fake issue”, nel senso che le “fake news” non esistono.
E le “notizie false” non esistono perché non esistono “notizie vere”. Nel sistema della comunicazione e della informazione esistono, invece notizie i cui elementi costitutivi e le cui fonti sono stati diligentemente accertati. Di ogni fatto notiziale possono essere fornite due o molteplici versioni: da quello più banale (l’incidente stradale nella versione dell’investitore e dell’investito), a quello più drammatico (l’attentato di Sarajevo del 28 giugno 1914).
La pretesa che l’informazione sia “vera” è filosoficamente insostenibile e socialmente e politicamente inattuabile.
Perché dunque si parla tanto ora di “fake news”? Sorge il dubbio che sia frutto di una convergenza fra ipocrisia e opzioni ideologiche.
In primo luogo il tema delle “fake news” sorge dopo la elezione alla presidenza USA di Donald Trump. Si afferma che lo stesso candidato ed organi di comunicazione a lui vicini avrebbero diffuso a piene mani “fake news” che avrebbero portato elettori indecisi a votare per il candidato repubblicano in danno di quello democratico.
Premesso che tale rapporto causa/effetto andrebbe seriamente provato (la circostanza che un candidato sia scorretto non è di per sé evidenza di una influenza decisiva sull’elettorato), quel che lascia perplessi è la ideologia che è sottesa alla argomentazione. Il cui senso sarebbe che, posto che Donald Trump esprime posizioni in larga parte inaccettabili per gli “opinion makers” e per la maggioranza dell’ “establishment” americani (nonché, per quel nulla che conta, del sottoscritto), non gli può essere consentito di orientare a suo favore i cittadini. Il presupposto inespresso – ma chiaramente anti-democratico – è che gran parte dei cittadini (ovviamente esclusi gli “opinion makers”) sono persone dotate di modeste capacità intellettive e facilmente abbindolabili dalla propaganda elettorale e dalle “fake news”. Gli elettori vanno protetti da loro stessi, dalle loro debolezze, dalle loro passioni, infatuazioni, idiosincrasie, ma ovviamente solo se votano per un soggetto sgradevole, prepotente, roboante come Trump. Le “fake news” sono tali a seconda di chi le enuncia e come conseguenza dell’esito elettorale. Venendo a più vicine vicende di casa nostra, per trent’anni sugli elettori italiani è stata rovesciata la “fake news” che l’Unione Sovietica fosse la patria della democrazia popolare e che il comunismo fosse la medicina a guasti del capitalismo. Gli elettori del PCI erano dei minorati? Tutt’altro, erano in larghissima misura persone intelligenti, oneste e civili (come del resto anche gli elettori democristiani). Ma non si è pensato per un attimo che si dovesse chiudere “l’Unità” o mettere il bavaglio alla RAI monocolore.
A voler utilizzare una metafora calcistica, è comprensibile che la squadra che perde (in modo così inatteso e contro un candidato così sgradevole) invochi il “foul play” (cioè il fallo), e dunque cerchi di mettere in discussione il risultato del campo. Ma a voler essere seri e volendo evitare di ripetere gli errori che hanno portato alla sconfitta, i democratici americani (e con essi i “sinceri democratici” di casa nostra) dovrebbero chiedersi perché milioni di americani hanno preferito l’impresentabile Trump, alla intelligente, grintosa, appassionata, esperta Hillary Clinton. E perché nella agiata Florida – lo stato chiave della sconfitta sia del 2000 che del 2016 – i milioni di elettori “latinos” non abbiano in alcun modo reagito alle “fake news” sugli immigrati criminali e fannulloni premiando la antagonista democratica.
Indimostrato il nesso fra “fake news” e vittoria del candidato anti-democratico (in tutti i sensi), ancor meno sostenibile è la tesi secondo cui ciò si può e si deve evitare attraverso una forte iniezione di informazione pubblica, affidata alle emittenti di servizio pubblico, e al controllo sugli operatori dell’informazione.
In questo caso disponiamo della controprova: si dice che il risultato americano è stato determinato dalla struttura tutta privatistica ed economicistica dell’attività informativa. Ma allora come si spiega il risultato del referendum sulla Brexit nel Regno Unito? Dove, a dispetto dello sbandierato ruolo di garanzia della BBC, le “fake news” del Trump britannico, Boris Johnson, hanno vinto la partita.
Anche qui elettori minorati, influenzabili, irrazionali e – diciamola tutta – razzisti?
Il sospetto che la spiegazione sia molto più complessa ed abbia ben poco a che vedere con il tasso di “verità” o di “falsità” delle notizie circolate è forte.
La caratura elitista ed intellettualistica della campagna contro le “fake news” (e dunque intrinsecamente anti-democratica: c’è democrazia quando gli elettori votano quello che proponiamo noi; altrimenti non c’è democrazia), è confermata da un’altra considerazione.
La vittoria di Donald Trump viene regolarmente e sulla base di studi asseritamente scientifici, attribuita all’uso che il candidato repubblicano e i suoi sostenitori hanno fatto dei c.d. “social media”, che hanno fatto da moltiplicatore delle sue “fake news” e della sua propaganda. La rete Internet sarebbe un potente persuasore, che catalizzerebbe i preconcetti e soffocherebbe un reale confronto di idee.
Colpisce in primo luogo la memoria corta e il doppio-pesismo. Quando nel 2008 si ebbe la storica vittoria di Barack Obama, prima contro la Clinton nelle primarie e poi contro l’eroe di guerra McCain, essa fu in larga misura attribuita all’innovativo uso della rete e dei “social media”.
Dunque, se i democratici si aggregano e consolidano i loro ideali sulla rete si tratta di una dimostrazione di come le nuove tecnologie sono al servizio della partecipazione popolare al processo elettorale. Se invece lo stesso strumento è utilizzato da cittadini che sostengono le tesi opposte – sgradevoli, stupide, auto-lesioniste – allora si scopre che la rete costituisce un pericolo per la democrazia e deve essere controllata.
E il cuore del problema è proprio qui. Se la Corte Suprema degli Stati Uniti, vent’anni fa, ci ha detto – ed ha sacrosantemente ragione – che la rete Internet è “un mezzo profondamente democratico” bisogna arrendersi alla circostanza che attraverso la rete e i tanti sistemi da essa offerti, a partire dalle piattaforme di condivisione di idee, notizie, commenti e contenuti, centinaia di milioni di cittadini esprimono e si espongono a quello altrui.
Fa riflettere la circostanza che il tema della “fake news” emerge con riferimento non alle “bufale” giornalistiche, alle campagne di linciaggio e di annientamento morale promosse ogni giorno dai media tradizionali (stampa e televisione), ma quando i cittadini si comportano in modo analogo sulla rete. In termini concreti, quando un giornale o una televisione addita una persona come colpevole delle peggiori nefandezze morali e giuridiche, e ciò sulla base di meri indizi – di solito estrapolati da atti di indagine di polizia che non hanno ricevuto alcun conforto di una processo e che l’accusato non è neanche in grado di contrastare, perché ristretto in carcere o comunque ormai appestato – questo non avrebbe nulla a che vedere con il tema della “fake news” e viene detto, con la tracotanza dell’aguzzino impunito, “E’ la stampa, bellezza”. Quando invece i cittadini si comportano nello stesso, incivile e vergognoso, modo sulla rete, allora ci si preoccupa e si chiede a gran voce di controllare, reprimere e sopprimere le loro esternazioni. Chi ha seminato il vento della totale immunità dei media, oggi raccogle la tempesta della canea del tanto decantato “popolo della rete”.
Ovviamente ciò non vuole essere una giustificazione di espressioni ingiustificabili e che denotano il degrado di ogni costume di civiltà. Ma vuole evidenziare che non si può da un lato esaltare la “libertà di manifestazione del pensiero”, facendo assurgere l’art. 21 Cost. e l’art. 10 CEDU ad usbergo della immunità di potenti aziende editoriali e dei loro arroganti dipendenti, garantendo a quest’ultimi la irresponsabilità, e, dall’altro lato, pretendere di dichiarare responsabili i cittadini e le piattaforme che ne ospitano le falsità e le opinioni.
Con il che si torna al punto di partenza. Non esistono “fake news”. Ci sono notizie e commenti che sono legittimi se si fondano su un diligente accertamento e sono espressi in modo tale da non ledere ed annientare la personalità altrui. E tale obbligo è, ovviamente, molto più stringente per chi professionalmente e dietro retribuzione svolge attività informativa, rispetto al comune cittadino che non può invocare immunità, ma solo se questa non è concessa a chi, meno di chiunque altro, ne ha il diritto.
Si ripulisca il mondo dell’informazione tradizionale e si vedrà che anche i cittadini (e candidati politici) si sentiranno meno legittimati a comportarsi in modi inqualificabili.