C’è un equivoco che aleggia, su cosa sia l’Europa e chi vi attenti, nel dibattito che attraversa il continente dopo le elezioni francesi e olandesi. Ciò che accomuna i successi degli “homines novi”, Pim Fortuyn, Le Pen, Haider, Bossi, è lo “straordinario senso di libertà che incarnano a fronte degli elettori”, ha scritto Barbara Spinelli domenica scorsa.
Le “élites tradizionali”, ha detto, hanno “dilapidato il linguaggio del paese legale”, fino ad apparire “vuote di immaginazione, […] di attenzione a quello che accade ai cittadini”. E’ la costruzione europea a rendere possibile il successo dei “nuovi illusionisti”, ha sostenuto Carlo Bastasin due giorni prima, dato che oggi è più facile “farsi portatori di messaggi incoerenti […] perché la coerenza è garantita al di fuori del palcoscenico nazionale”. Ed ecco la domanda. Ma allora non sarà proprio il modo in cui hanno gestito la costruzione europea la ragione per cui in Italia hanno perso Prodi-D’alema-Amato, in Francia Jospin, in Olanda Wim Kok, quella per cui in Germania Schroeder sta ben sotto Stoiber nei sondaggi?
La costruzione europea é liberista: mercati concorrenziali in luogo dei monopoli e degli aiuti di stato, la banca centrale più indipendente del mondo, la virtù di bilancio eretta a valore costituzionale. Ma disegnata la costruzione, sono mancate le riforme: c’è il mercato unico ma i prezzi non sono scesi; è diminuito il deficit ma la crescita è bassa; c’è Schengen, ma non la sicurezza. Abbiamo l’euro: ma invece di rendere concreto agli occhi degli elettori il dividendo di Maastricht, abbiamo insistito per anni con tasse alte per non tagliare le spese. Così il richiamo costante all’Europa delle “elites tradizionali” è sembrato agli elettori sempre più euroretorica. E si è aperto lo spazio non a ciò che l’euroterorica chiama “libertinismo nichilista”, ma a una rivincita dell’individualismo, all’avanguardia estrema – anche se ha facce politiche che ci stanno antipatiche – del sano approdo al voto per ragioni di portafoglio.
E’ euroretorica lamentare la mancanza di un’Europa politica accanto all’Europa economica, quando si difendono gli aiuti di stato e le protezioni dai takeover (Schroeder), ritornano tentazioni colbertiste (Chirac), si chiedono interpretazioni lassiste del patto di stabilità (tutti). Il problema, prima ancora di fare entrare la politica nella costruzione europea, è di fare entrare i principi dell’Europa economica nella politica dei singoli Stati.
E’ euroretorica (Amato direbbe “festival canoro del federalismo”) preferire che la futura guida dell’Unione sia una “virtuosa” accolita di eurocrati senza mandato popolare, piuttosto che la “presidenza lunga” per coordinare il consiglio europeo, responsabile della politica davanti agli elettori.
L’euroretorica è un rischio soprattutto per la sinistra. Perché la sinistra, più della destra, ha bisogno di superiori principi in cui riconoscersi; al punto da preferire chiedere ai propri elettori sacrifici piuttosto che realizzare riforme temute; al punto da aver dipinto per alcuni anni – per il solo fatto che la maggioranza dei governi europei erano di centrosinistra – l’Europa come un superiore valore che l’avrebbe salvata da Haider quando questi sembrava un’eccezione, ma che non può salvarla certo oggi, che le vittorie del centrodestra fioccano ovunque. La sinistra ha difficoltà a rispondere alla richiesta di individualismo. Temo sia questa, la vera chiave per capire il successo delle liste Fortuyn: assai più della presunta contraddizione tra libertini velleitari a livello nazionale, e severi custodi della virtù nelle istituzioni comunitarie.
maggio 24, 2002