Dire, come come ha fatto Luigi Zingales nella sua rubrica «Alla luce del Sole» di domenica 16 aprile, che è mancato finora un “dibattito serio” sull’Italia e l’euro, mi pare un po’ esagerato. Anzi questo giornale, secondo la sua posizione e tradizione, vi ha seriamente contribuito: solo nelle ultime settimane ricordo Bini Smaghi, Codogno, Fabbrini, Galli, e sono certo di far torto a molti. Forse il dibattito non è stato organicamente articolato e pubblicamente esposto con l’evidenza adeguata all’ampiezza che hanno conquistato le posizioni euroscettiche. Ben venga quindi l’approfondimento che egli propone. Tuttavia, prima che incominci il dibattito tra economisti, da non economista credo necessarie alcune riflessioni sul dibattito stesso: metodologiche e politiche.
Prima: sull’ordine con cui Zingales ha scelto di articolare il dibattito. Cioè prima se la moneta unica conviene, poi quanto converrebbe non averla, infine quanto costerebbe abbandonarla. Sostengo che l’ordine debba essere invertito: infatti se l’uscita apparisse troppo costosa e troppo pericolosa, che senso avrebbe andare avanti? Ci sono buone ragioni per credere che così sia. Sentiamo cosa ne dice uno che queste cose le ha vissute, Yanis Varoufakis, sul blog di Rifondazione Comunista.
«Io vorrei che non avessimo creato l’euro, vorrei che avessimo conservato le nostre monete nazionali.[Ma] c’è differenza tra dire che non avremmo dovuto creare l’euro e dire che ora dovremmo uscirne [perché questo] non ci riporterà a dove eravamo prima o a dove saremmo stati se non fossimo entrati. […] Uscire dall’euro significherebbe una nuova moneta, il che richiede quasi un anno da introdurre, per poi svalutarla. Ciò sarebbe lo stesso che se l’Argentina avesse annunciato una svalutazione con dodici mesi di anticipo. Sarebbe catastrofico, perché se si dà un simile preavviso agli investitori – o persino ai comuni cittadini – questi liquiderebbero tutto, si porterebbero via i soldi nel periodo che gli si è offerto in anticipo rispetto alla svalutazione, e nel paese non resterebbe nulla.
Anche se potessimo tornare collettivamente alle nostre monete nazionali in tutta l’eurozona, Paesi come la Germania, […] vedrebbero salire alle stelle i loro rapporti di cambio. Ciò significherebbe che la Germania, che al momento ha una bassa disoccupazione ma un’elevata percentuale di lavoratori poveri, vedrebbe tali lavoratori poveri diventare disoccupati poveri. […] Mentre in luoghi come Italia, Portogallo e Spagna, e anche in Francia, ci sarebbe contemporaneamente una fortissima caduta dell’attività economica (a causa della crisi in Paesi come la Germania) e un forte aumento dell’inflazione (perché le nuove monete in quei Paesi dovrebbero svalutare in misura molto considerevole, provocando il decollo dei prezzi all’importazione di petrolio, energia e merci fondamentali). […] Tutte le economie a est del Reno e a nord delle Alpi finirebbero in depressione e il resto dell’Europa sprofonderebbe in una stagflazione economica […]. Potrebbe addirittura scoppiare una nuova guerra; magari non si tratterebbe di una guerra vera e propria, ma le nazioni si scaglierebbero l’una contro l’altra. In un modo o nell’altro, l’Europa farebbe ancora una volta affondare l’economia mondiale. La Cina sarebbe devastata da questo e la fiacca ripresa statunitense svanirebbe. Avremo condannato il mondo intero ad almeno una generazione perduta». Fine della citazione.
Non si discute impunemente di vantaggi e svantaggi di un’uscita. Tutto ciò che rende credibile la ridenominazione, cioè che controlli sul capitale rendano impossibile portare gli “euro italiani” fuori dall’Italia oppure che questi siano forzosamente convertiti in una nuova lira, induce gli investitori a ritirare i propri depositi dalle banche italiane per depositarli in banche tedesche oppure per comperare Bund. Suscitare il timore del rischio rende il rischio autoavverantesi,
Seconda osservazione: le persone che dovranno contribuire al dibattito. Sull’euro c’è una “battle of ideas” (per riprendere titolo, e qualche frase, del recente libro di Markus Brunnermeier): battaglia tra l’idea francese, di uno stato centrale forte che interviene ex-post, e l’idea tedesca di un sistema di regole ex ante che evitino il moral hazard. Ma entrambe sono figlie dell’idea di stato nazione, quella che fatto grande l’Europa e con lei tutto l’Occidente. Diversa è la “battaglia” tra visioni continentale e anglosassone. C’è un bias ideologico: gli americani non hanno mai accettato che l’Europa potesse unirsi costituendo un’area economica più rilevante degli Usa. I vari Krugman, Sachs, Stiglitz, Feldstein, divergenti tra loro nelle analisi, sono uniti nelle critiche vivaci, a volte feroci, di ciò che l’Europa fa, o non fa. L’interesse geopolitico degli Usa a che l’Europa aiuti a stabilizzare la domanda aggregata a livello mondiale, e una diversa filosofia economica, aumentano la loro tendenza a far la lezione all’Europa.
Basti ricordare due momenti. Il 2012, anno di elezioni presidenziali, quando il timore che la crisi del debito europeo potesse dilagare e pregiudicare le sorti di Obama e portare a una vittoria dei repubblicani, i ripetuti interventi di Tim Geithner perché l’Europa «facesse qualcosa». E il 2015 quando gli Usa temettero che il contagio politico da Grecia a portogallo Spagna e Italia, rafforzasse il potere di Putin nel Sudest europeo: «un errore geopolitico», secondo Jack Lew.
Terza osservazione: le aspettative dell’iniziativa di Zingales. Tutti crediamo nel «valore di un dibattito intelligente e costruttivo»; paghiamo pure il rituale (e un po’ ipocrita) tributo allo scopo non di «convincere i lettori in una direzione o nell’altra, ma di informarli». Purché non si pensi che la soluzione al problema dell’Italia nell’euro sia un teorema da dimostrare o un modello da validare. La questione è interamente politica, ed è nella politica che deve trovare la sua soluzione.
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