Tra tante difficoltà, è ciò che ha unito il Paese negli ultimi 20 anni.
Che cosa stiamo ad aspettare? Un’eventuale condanna in primo grado a Milano che chiuda una stagione politica e ne apra una nuova? La mancata approvazione del federalismo che porti la Lega a staccare la spina? O al contrario la sua approvazione che la liberi della convenienza a non staccarla? Il cigno nero di una nuova (diversa) crisi finanziaria? Una fiammata che incendi la sponda Sud del Mediterraneo?
Questa attesa costa cara. Chi avesse progetti di riforme, nota Giuseppe De Rita, se ha sensibilità politica, si autocensura; è questo il senso profondo delle dimissioni dal Senato, presentate, ritualmente respinte, e ripresentate da una figura di primo piano del riformismo di sinistra come Nicola Rossi. Basta che lo sconfortante presente susciti dubbi sul nostro “bipolarismo sgangherato” in uno dei suoi storici fautori, perché si formi la fila di chi o lo piange o se ne pente. Giovanni Sartori propone, per riempire un presente vuoto di politica, un futuro al negativo, la cancellazione postuma delle leggi ad personam (quando alla persona in questione non serviranno più), la regolazione del conflitto d’interesse (quando l’interesse non sarà più in conflitto) e l’eliminazione del Porcellum da parte di un Parlamento (eletto col Porcellum) in cui sono rappresentati i fan di tutti i sistemi elettorali, dallo svedese all’australiano passando per l’israeliano.
Eppure questi anni – ormai son quasi venti – non sono stati riempiti solo dagli aspetti più deteriori del berlusconismo, o dalle manifestazioni più becere dell’antiberlusconismo: ci sono stati cambiamenti né irrilevanti né negativi, abbiamo vissuto passioni né ignobili né velleitarie. Non c’è proprio nessuna alternativa al consumarsi di tutto, mentre si attende il rogo finale? Non è che questo succede proprio a causa di questa atmosfera sospesa? Non sarebbe meglio sostituire al pensiero magico, per cui tutto sarebbe possibile subito, una più adulta scommessa pascaliana sui tempi lunghi? Che cosa si perde a supporre che abbiamo del tempo davanti, che Berlusconi potrebbe sopravvivere a una condanna in primo grado, e la legislatura trascinarsi fino alla sua naturale scadenza? Non è nell’interesse proprio di chi oggi non ha il potere ritrovare la voglia di progettare riforme, incominciando dal vedere che cosa salvare di un ventennio in cui, come non ci sono stati solo girotondini, così non ci sono stati solo caimani?
In Italia – è Rino Formica a osservarlo – l’esigenza di continuità ha sempre accompagnato i grandi cambiamenti: alla nascita della Repubblica, fu il desiderio di continuità a indurre l’Assemblea costituente a emendare il ben più radicale testo della Commissione dei 75; nella cosiddetta “seconda Repubblica”, il successo di Berlusconi fu dovuto anche ad aver rappresentato la continuità con i partiti devastati da Mani Pulite.
La scommessa di Pascal sta nella considerazione della pochezza del tempo presente rispetto all’eternità futura. L’opposizione invece pare intenta a guardare un passato di decenni e a preoccuparsi di un futuro di mesi: così tutto quello che riesce a progettare sono assemblaggi di sbiadite identità, illudendosi che si attacchino docilmente l’una all’altra come catene di magnetini, un polo più con un polo meno, finché ce n’è uno. Dovrebbe fare il contrario, cercare d’interpretare i cambiamenti ultimi, individuare le correnti che attualmente scorrono sotto la superficie, dedurne alcuni punti fermi, e su questi costruire il consenso.
Siamo sicuri che ormai la gente non dia per acquisito il diritto di scegliere direttamente da chi vuole essere governata, nei comuni, nelle regioni, nel paese, e che non abbia nessuna voglia di ritornare ai governi fatti e disfatti nelle segreterie di partiti che ha poca voglia di resuscitare?
Sicuri che non sia radicata la richiesta di uno Stato più leggero e meno costoso, tanto radicata che a chi è credibile nel prometterlo perdonano pure se ha fatto poco o niente per realizzarlo? Sicuri che accanto a tanta richiesta di protezione non siano più numerosi quelli che hanno voglia di giocarsi le proprie carte, e che varrebbe la pena cercare di rendergli la vita più semplice, e puntare su di loro?
Sicuri che nell’informazione chi parla delle cose di 20 anni fa sia preso per un archeologo, che la libertà d’informazione è un problema per gli ayatollah che riescono a bloccarne la diffusione, non certo per noi che abbiamo infinitamente più informazioni di quella che riusciamo a raccogliere?
Sicuri che anche tra chi è giudice severo dei comportamenti del presidente del Consiglio, e vorrebbe veder cadere su di lui la spada della giustizia, non ci sia la convinzione che con la magistratura c’è un’area problematica, nei suoi rapporti con i cittadini e nei suoi rapporti con la politica?
A chi scrive pare di scorgere in tutto questo un filo rosso: un’aspettativa di libertà, pur in mezzo a tante contraddizioni, ben maggiore rispetto a 20 anni fa. Libertà nell’informarsi e nell’esprimersi, nel consumare e nel produrre, nei rapporti con il mondo pubblico e nei comportamenti privati. Prendere questa esigenza come punto fermo per la costruzione del consenso potrebbe essere una scelta di realismo politico.
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febbraio 23, 2011