Emergenza lavoro. Caro Prodi, hai solo una chance

agosto 6, 1998


Pubblicato In: Varie


Le proteste di piazza dei disoccupati aggiungono un elemento nuovo alle polemiche interne alla maggioranza. Non più solo le fiducie limitate di Bertinotti, le fiammate dei giustizialisti, l’eterna disputa tra Ulivo e partiti: ora il malessere sembra aver contagiato anche il sindacato.
Le polemiche ormai aperte tra Cisl e Cgil costituiscono il presupposto per mettere in crisi anche la concertazione. E questa è la pietra angolare su cui Ciampi ha costruito la sua politica, la forza distintiva rispetto a precedenti governi, un modello originale che si è dichiarato di voler esportare in altri meno avveduti Paesi.

È l’emergenza lavoro e Mezzogiorno a pesare su governo e sindacati. Ogni nuova statistica lo ricorda implacabile, ogni nuovo dato lo ribadisce costante, ogni corteo lo grida esasperato.
Nessuno, credo, può seriamente pensare che il problema sia risolubile con gli strumenti finora approntati: che una promozione meglio coordinata, i patti territoriali, i gemellaggi con i distretti del Nord, qualche concessione dei sindacati, la clemenza di Bruxelles non dico risolvano, ma portino risultati almeno decenti. Già era improbabile che una ripresa prevista poco sotto il 3 per cento portasse più lavoro; con le stime sensibilmente riviste al ribasso, la prospettiva è ancora peggiore. Prodi potrà pure replicare a chi protesta in piazza che gioca sulla pelle dei disoccupati, e D’Alema aggiungere che così si produce agitazione a mezzo di agitazione: ma se le piazze dovessero moltiplicarsi le difficoltà per il governo potrebbero essere letali.
Allora perché non muoversi? Non bastano l’impiego di persone di valore al Tesoro, né la rivisitazione culturale di vecchi modelli programmatori, né la ricetta Modigliani-La Malfa di investimenti pubblici.
Bisogna avere il coraggio di applicare l’unica ricetta che resta: liberalizzazione piena del lavoro, una riduzione del carico fiscale e contributivo per le imprese, netta, permanente ed estesa a tutto il territorio nazionale. Nessuno può onestamente essere certo che ciò che ha funzionato in altri Paesi e culture funzioni allo stesso modo nel nostro Mezzogiorno. Ma una cosa sappiamo per certo: che questa politica va nella direzione giusta, e che abbiamo esaurito le altre possibilità.
Dovrebbe bastare, per abbracciarla senza esitazione.

Qualcuno ha proposto una Maastricht per l’occupazione. A differenza dell’entrata nell’euro, questo non è un obiettivo raggiungibile con uno sforzo straordinario e di breve durata – il rinvio di alcune spese e l’aumento delle imposte – con cui ribaltare il giudizio dei mercati e guadagnarne la fiducia. Ciò detto, se si vuol invece indicare un cambiamento radicale di politica assunto con la forza della disperazione, allora ben venga questa nuova Maastricht. Come allora il risultato fu ottenuto perché ogni altra decisione fu subordinata al raggiungimento dei famosi parametri, così oggi liberalizzazione del lavoro e riduzione del carico fiscale per le imprese dovrebbero diventare il criterio a cui rapportare ogni altra scelta.
Sui tabù in materia di mercato del lavoro, sulla difficoltà e sui costi per i licenziamenti, sui minimi salariali, sui vincoli imposti al part time e al lavoro interinale, il governo dovrebbe usare grande determinazione per vincere una difesa d’ufficio diventata di impaccio ai sindacati stessi.
Per la pressione fiscale e contributiva la cosa è più complicata: per ridurre le tasse bisogna ridurre le spese. E le spese si riducono solo se si seguono, come si fece per la Maastricht vera, le regole del gioco della torre: ciò che allontana dall’obiettivo viene respinto, ciò che non serve viene scartato.
Chi invoca una «Maastricht per l’occupazione» deve sapere che dovrà por mano di nuovo alla previdenza, che non potrà fermarsi di fronte alle spese mediche (quelle non ospedaliere), che non esiterà di fronte ai tre maestri per classe, o agli stipendi dei ferrovieri.
Chi invoca una Maastricht per l’occupazione non farà le cose che sa essere negative in sé, come le assunzioni di Stato, o anche il prolungamento dell’agonia dei lavori socialmente utili. Ma neppure prometterà investimenti a chi non impara da solo a progettare, a promuovere, a dimostrare le convenienze.
Non c’è più molto tempo.

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