Ecco come vi smonto le false profezie sul futuro del lavoro

febbraio 17, 2000


Pubblicato In: Giornali, Panorama


In Europa sono diventato liberale. « Quando a ventitré anni scappai dal Cile di Pinochet, ero socialista in po­litica e marxista in economia. Oggi, da li­berale, dico che senza rispetto dei diritti civili e politici non c’è libertà. Ma per ga­rantire lo sviluppo e la libertà ci vuole il mercato. E perché il mercato funzioni bi­sogna portarlo a chi ancora non ce l’ha. Per questo serve un mondo economicamente più integrato e aperto. E per questo com­batto i catastrofisti che nella globalizza­zione vedono una doppia tragedia: la fine del lavoro nei paesi avanzati e lo sfrutta­mento dei paesi poveri». Mauricio Rojas condensa in questo suo biglietto da visita il senso della sua ultima fatica, quel volu­me Perché bisogna essere ottimisti sul fu­turo del lavoro (pubblicato da Carocci edi­tore) che non solo confuta, dati alla mano, le obiezioni di famosi critici della globa­lizzazione come Jeremy Rifkin e Vivianne Forrester, ma che oggi costituisce un ma­nuale per uscire dalle secche in cui si è cacciata la Wto dopo Seattle.

Quarantanove anni, accademicamente cresciuto in Svezia dove insegna storia economica all’università di Lundt, della sua anima latina l’economista che incon­triamo di passaggio a Londra serba intat­ta la passione.

Che cosa l’ha spinta a queste sue 95 pa­gine di requisitoria?

L’esperienza che ho vissuto in Svezia in questi anni. E che accomuna gran parte dei paesi più ricchi dell’Europa: la Nor­vegia, l’Austria di Haider, la Svizzera e an­che il vostro Nord Italia che vota Bossi. In queste aree emerge una paura sempre più netta verso la globalizzazione e prende di­verse forme: chiusura ver­so gli immigrati, timore che i paesi in via di sviluppo facciano concorrenza ai no­stri occupati, difesa delle radici storiche irriducibili delle rispettive comunità nazionali. Su tutti questi fenomeni fanno leva i nemi­ci della globalizzazione. E vanno sconfitti.

Non credo che Rifkin simpatizzi per Jòrg Haider.

Forse no, ma sono gli ar­gomenti degli antiglobaliz­zatori a nutrire i falsi miti degli Haider.

Argomenti però che a volte sembrano poggiare su alcuni numeri. Nel mondo gli esseri umani che vivono i con meno di due dollari al giorno sono pas­sati nell’ultimo decennio da 2,3 a 2,8 miliardi e secondo la Banca mondiale non di­minuiranno nel prossimo decennio.

Il problema dei poveri nel mondo non è la globalizzazione, ma proprio l’esserne esclusi, restarne ai margini. E per con­durveli abbiamo bisogno di istituzioni adeguate.

A che cosa pensa? Al sogno di un go­verno mondiale? A rafforzare il Fondo mo­netario che molti paesi in via di sviluppo vedono come un guardiano degli interes­si americani? O a che altro?

Abbiamo bisogno sia di istituzioni glo­bali sia di istituzioni a livello dei singoli paesi. Nei paesi del Terzo mondo non si può sviluppare l’economia di mercato e lo stato di diritto senza che prima attecchiscano i valori e le regole che li possano garantire. E la stes­sa cosa vale per i paesi in transizione dall’eco­nomia pianificata a quella di mercato. Ci vogliono tempi lunghi. Ma questa maturazio­ne culturale non può avvenire se i paesi ric­chi tornano al protezionismo.

Chiamiamole per nome, una per una, le paure dei paesi ricchi La prima è che i sa­lari dei lavoratori meno qualificati con la globalizzazione si abbassino, insomma che l’operaio medio debba guadagnare come quello di Shenzen in Cina

Nossignore. Il livello dei salari è con­nesso alla produttività. Le differenze sala­riali sono differenze di produttività. E nel­la divisione del lavoro di un mondo glo­balizzato ai paesi più avanzati toccano i settori a maggior produttività, dunque con retribuzioni più elevate e commisurate. Non è che tutti facciano le stesse cose, in un mondo integrato.

Sì, ma anche nei paesi avanzati la for­bice tra chi guadagna di più e chi meno si allarga.

Uniti, i settori più produttivi hanno regi­strato incrementi incredibili A restare in­dietro sono i settori meno qualificati della forza lavoro. Ma neanche questo si deve alla globalizzazione, è la trasformazione tecnologica che sta eliminando molti di questi lavori nei paesi sviluppati e crean­do opportunità per lavori di alta produtti­vità. Avremo carenza di lavoratori di alto profilo e dovremo lavorare sulla formazio­ne perché il capitale umano sia adeguato. Col tempo, ce la faremo.

A guidare i flussi di danaro non è solo la ricerca del profitto, ma anche i tacci di in­teresse. E qui sta la seconda obiezione: è il signor Alan Greenspan che li decide per tutti, per indurre il mondo intero a finanziare Io sviluppo degli Usa.

I capitali devono essere liberi di spo­starsi verso gli impieghi più remunerativi.

E il fatto è che non sono i ca­pitali a mancare: si tratti di fi­nanziare start up nella Silicon valley o nuovi insediamenti elettronici in India. Il problema dei paesi sviluppati sono i la­voratori poco qualificati in un mercato senza flessibilità. Ed è un problema che un nuovo sta­to del benessere, concepito per favorire lo sviluppo e non per mantenere lo status quo, può aiutare a risolvere, unendo le opportunità della flessibilità a quelle della qualificazione di questa manodopera. La peg­giore alternativa sarebbe di di­re: no, rifugiamoci nel prote­zionismo e lasciamo che que­sti lavoratori restino sottoqua­lificati.

Globalizzazione, dicono i critici, significa che le imprese si spostano nei paradisi fiscali e che le transazioni avvengono in rete dove nessuno le può tas­sare. E allora chi lo finanzia più il welfare?

Certo, in un mondo aperto si tende alla diminuzione dell’imposta sul capitale. Ma devo ripetermi: quello che sfugge ai ne­mici della globalizzazione è che a essere centrale oggi non è il capitale, è l’essere umano e le sue conoscenze. La globaliz­zazione siamo noi, non è un pugno di tec­nocrati e finanzieri E la nuova economia dell’informazione viaggia sulle idee, non sul carbone e l’acciaio della prima e della seconda rivoluzione industriale. La vera ricchezza delle aziende leader mondiali non sono le macchine, ma le idee di chi ci lavora e dei clienti che hanno.

La leadership mondiale di questo pro­cesso però sembra in crisi. SPattle è falli­ta. Gli Usa devono eleggere un nuovo pre­sidente. L’Europa è in difficoltà…

In tutti i paesi sviluppati ci sono forze so­ciali molto importanti che si oppongono al processo di liberali77a-rione di cui il mon­do ha bisogno. Quest’anno di elezioni pre­sidenziali in America vedrà forse pochi passi avanti. Per questo dobbiamo sfrut­tarlo per un ripensamento. Per gettare le basi di un grande compro­messo storico. So bene che in Italia questa espressione, usata da Enrico Berlinguer, significava un’altra cosa. Ma esprime bene che cosa ho in mente: un patto of­ferto a tutti quegli interes­si che si sentono minaccia­ti dalla globalizzazione. In qualunque paese si trovi­no. E a cominciare dai paesi avanzati, so­prattutto dall’Europa che è corrosa da una grave malattia.

Quale?

Gli Stati Uniti e i paesi anglosassoni vi­vono in una dimensione di mercato pienamente realizzata. Lì, storicamente e culturalmente, alla base di tutto è l’individuo, i suoi diritti e le sue qualità. L’Europa vive ancora una fase eroica, per così dire, del­la sfera comunitaria. È il gruppo cui si ap­partiene a prevalere sull’individuo.

Per molti è proprio questa la cifra irriducibile della civiltà europea. «Non vo­gliamo essere come l’America», grida Bové alla testa dei paysan francesi fuori le mura di Seattle e Davos.

Chi grida questo lo fa perché è un im­prenditore protetto dalla politica agricola protezionistica dell’Unione Europea. O magari perché appartiene a un partito po­litico, che prende voti da chi vuole mante­nere il welfare europeo così come oggi lo conosciamo, cioè rigido e incapace di ade­guarsi all’evoluzione della struttura economica. Oppure ancora perché parla a no­me di un sindacato che, come tutti i sindacati, teme un mercato del lavoro flessi­bile che sfugge dal controllo delle con­trattazioni centralizzate. Sono queste cor­porazioni il problema europeo. La presa molto solida che esse esercitano sull’Eu­ropa. E che si traduce in uno svantaggio per gli europei che stanno peggio, i meno qualificati, gli immigrati, soprattutto quel­li dal Terzo mondo.

Ci sono anche molti intellettuali europei a rifiutare un mondo a stelle e strisce.

Alt, ecco un pericoloso equivoco da chiarire. Non c’è alcun mondo omologato nel mercato integrato. La convergenza di reddito pro capite tra paesi avanzati e pae­si in via di sviluppo è un conto. Essa av­viene e avverrà, a misura in cui i singoli paesi si diano istituzioni capaci di garan­tirla. Ma saranno proprio la cultura e le isti­tuzioni di ciascun sistema paese a farlo specializzare in questa o quella attività. Le differenze restano il sale della storia, oltre che della teoria del vantaggio competiti­vo. La realtà europea di questi ultimi anni ci dimostra che ci sono paesi periferici, h. rispetto al nucleo franco-tedesco, pae­si che erano in ritardo, come l’Irlanda e il Portogallo, che sono stati capaci di ri­montare in pochi anni le posizioni e og­gi sono alla testa della classifica della cre­scita, creano più posti di lavoro e attira- :­no più investimenti. E non hanno rinun­ciato ad alcuna delle loro specificità. han­no solo introdotto riforme.

Torniamo agli intellettuali.

Ah, gli intellettuali. Contro la globaliz­zazione ce ne sono sia di destra sia di si­nistra. Come ci sono partiti politici che in Europa incarnano le paure dei ricchi sia da destra sia da sinistra. Perché nei ricchi dobbiamo includere non solo i render ma, su scala mondiale, anche l’operaio ipertu­telato svedese o italiano. Sarò sincero, nel­la grande alleanza tra protezionisti nazio­nalisti di destra e collettivisti tribalisti di si­nistra, è la sinistra a preoccuparmi di più.

Perché?

Innanzitutto perché in Europa oggi eser­cita responsabilità di governo preminenti. Ma soprattutto perché soffre di una fru­strazione storica. È la sinistra che ha avu­to l’idea di liberare il Terzo mondo. Solo che a liberarlo non è Che Guevara o il so­cialismo. È il capitale. Questi intellettuali di sinistra nel ’68 hanno dimenticato Marx e le sue parole sulla forza di sviluppo del capitale. E hanno pensato che i poveri sa­rebbero stati liberati attraverso la politica. Ecco perché dico che la sinistra che dice no alla globalizzazione, in realtà, ha un problema di identità politica, di conti mal atti con la propria storia. Perché in realtà dice no al miglioramento delle condizioni di milioni di svantaggiati. E ci fa correre un tremendo rischio.

Professor Rojas, ma allora il suo ottimi­smo va a farsi benedire…

Al contrario. Ma dobbiamo ricordare il passato per evitare i suoi errori. Come sto­rico economico, ricordo che già una volta si è verificato un grande salto indietro nel cammino verso un mondo economica­mente integrato. Avvenne negli anni Ven­ti e Trenta, dopo la prima guerra mondia­le, che segna la fine della prima globaliz­zazione. Anche allora fu l’Europa a offri­re, sia da destra sia da sinistra, un valido pretesto alla rinascita dello spirito prote­zionista americano. Sappiamo com’è an­data a finire. Oggi questo rischio potreb­be ripetersi. Ma io resto ottimista.

È con le politiche redistributive che l’Eu­ropa può vincere le sue paure, convince­re i suoi elettori e sindacati?

Credendo in una formula nuova. Non più, come faceva il vecchio welfare euro­peo, redistribuendo risorse, ma distribuendo opportunità.

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