In Europa sono diventato liberale. « Quando a ventitré anni scappai dal Cile di Pinochet, ero socialista in politica e marxista in economia. Oggi, da liberale, dico che senza rispetto dei diritti civili e politici non c’è libertà. Ma per garantire lo sviluppo e la libertà ci vuole il mercato. E perché il mercato funzioni bisogna portarlo a chi ancora non ce l’ha. Per questo serve un mondo economicamente più integrato e aperto. E per questo combatto i catastrofisti che nella globalizzazione vedono una doppia tragedia: la fine del lavoro nei paesi avanzati e lo sfruttamento dei paesi poveri». Mauricio Rojas condensa in questo suo biglietto da visita il senso della sua ultima fatica, quel volume Perché bisogna essere ottimisti sul futuro del lavoro (pubblicato da Carocci editore) che non solo confuta, dati alla mano, le obiezioni di famosi critici della globalizzazione come Jeremy Rifkin e Vivianne Forrester, ma che oggi costituisce un manuale per uscire dalle secche in cui si è cacciata la Wto dopo Seattle.
Quarantanove anni, accademicamente cresciuto in Svezia dove insegna storia economica all’università di Lundt, della sua anima latina l’economista che incontriamo di passaggio a Londra serba intatta la passione.
Che cosa l’ha spinta a queste sue 95 pagine di requisitoria?
L’esperienza che ho vissuto in Svezia in questi anni. E che accomuna gran parte dei paesi più ricchi dell’Europa: la Norvegia, l’Austria di Haider, la Svizzera e anche il vostro Nord Italia che vota Bossi. In queste aree emerge una paura sempre più netta verso la globalizzazione e prende diverse forme: chiusura verso gli immigrati, timore che i paesi in via di sviluppo facciano concorrenza ai nostri occupati, difesa delle radici storiche irriducibili delle rispettive comunità nazionali. Su tutti questi fenomeni fanno leva i nemici della globalizzazione. E vanno sconfitti.
Non credo che Rifkin simpatizzi per Jòrg Haider.
Forse no, ma sono gli argomenti degli antiglobalizzatori a nutrire i falsi miti degli Haider.
Argomenti però che a volte sembrano poggiare su alcuni numeri. Nel mondo gli esseri umani che vivono i con meno di due dollari al giorno sono passati nell’ultimo decennio da 2,3 a 2,8 miliardi e secondo la Banca mondiale non diminuiranno nel prossimo decennio.
Il problema dei poveri nel mondo non è la globalizzazione, ma proprio l’esserne esclusi, restarne ai margini. E per condurveli abbiamo bisogno di istituzioni adeguate.
A che cosa pensa? Al sogno di un governo mondiale? A rafforzare il Fondo monetario che molti paesi in via di sviluppo vedono come un guardiano degli interessi americani? O a che altro?
Abbiamo bisogno sia di istituzioni globali sia di istituzioni a livello dei singoli paesi. Nei paesi del Terzo mondo non si può sviluppare l’economia di mercato e lo stato di diritto senza che prima attecchiscano i valori e le regole che li possano garantire. E la stessa cosa vale per i paesi in transizione dall’economia pianificata a quella di mercato. Ci vogliono tempi lunghi. Ma questa maturazione culturale non può avvenire se i paesi ricchi tornano al protezionismo.
Chiamiamole per nome, una per una, le paure dei paesi ricchi La prima è che i salari dei lavoratori meno qualificati con la globalizzazione si abbassino, insomma che l’operaio medio debba guadagnare come quello di Shenzen in Cina
Nossignore. Il livello dei salari è connesso alla produttività. Le differenze salariali sono differenze di produttività. E nella divisione del lavoro di un mondo globalizzato ai paesi più avanzati toccano i settori a maggior produttività, dunque con retribuzioni più elevate e commisurate. Non è che tutti facciano le stesse cose, in un mondo integrato.
Sì, ma anche nei paesi avanzati la forbice tra chi guadagna di più e chi meno si allarga.
Uniti, i settori più produttivi hanno registrato incrementi incredibili A restare indietro sono i settori meno qualificati della forza lavoro. Ma neanche questo si deve alla globalizzazione, è la trasformazione tecnologica che sta eliminando molti di questi lavori nei paesi sviluppati e creando opportunità per lavori di alta produttività. Avremo carenza di lavoratori di alto profilo e dovremo lavorare sulla formazione perché il capitale umano sia adeguato. Col tempo, ce la faremo.
A guidare i flussi di danaro non è solo la ricerca del profitto, ma anche i tacci di interesse. E qui sta la seconda obiezione: è il signor Alan Greenspan che li decide per tutti, per indurre il mondo intero a finanziare Io sviluppo degli Usa.
I capitali devono essere liberi di spostarsi verso gli impieghi più remunerativi.
E il fatto è che non sono i capitali a mancare: si tratti di finanziare start up nella Silicon valley o nuovi insediamenti elettronici in India. Il problema dei paesi sviluppati sono i lavoratori poco qualificati in un mercato senza flessibilità. Ed è un problema che un nuovo stato del benessere, concepito per favorire lo sviluppo e non per mantenere lo status quo, può aiutare a risolvere, unendo le opportunità della flessibilità a quelle della qualificazione di questa manodopera. La peggiore alternativa sarebbe di dire: no, rifugiamoci nel protezionismo e lasciamo che questi lavoratori restino sottoqualificati.
Globalizzazione, dicono i critici, significa che le imprese si spostano nei paradisi fiscali e che le transazioni avvengono in rete dove nessuno le può tassare. E allora chi lo finanzia più il welfare?
Certo, in un mondo aperto si tende alla diminuzione dell’imposta sul capitale. Ma devo ripetermi: quello che sfugge ai nemici della globalizzazione è che a essere centrale oggi non è il capitale, è l’essere umano e le sue conoscenze. La globalizzazione siamo noi, non è un pugno di tecnocrati e finanzieri E la nuova economia dell’informazione viaggia sulle idee, non sul carbone e l’acciaio della prima e della seconda rivoluzione industriale. La vera ricchezza delle aziende leader mondiali non sono le macchine, ma le idee di chi ci lavora e dei clienti che hanno.
La leadership mondiale di questo processo però sembra in crisi. SPattle è fallita. Gli Usa devono eleggere un nuovo presidente. L’Europa è in difficoltà…
In tutti i paesi sviluppati ci sono forze sociali molto importanti che si oppongono al processo di liberali77a-rione di cui il mondo ha bisogno. Quest’anno di elezioni presidenziali in America vedrà forse pochi passi avanti. Per questo dobbiamo sfruttarlo per un ripensamento. Per gettare le basi di un grande compromesso storico. So bene che in Italia questa espressione, usata da Enrico Berlinguer, significava un’altra cosa. Ma esprime bene che cosa ho in mente: un patto offerto a tutti quegli interessi che si sentono minacciati dalla globalizzazione. In qualunque paese si trovino. E a cominciare dai paesi avanzati, soprattutto dall’Europa che è corrosa da una grave malattia.
Quale?
Gli Stati Uniti e i paesi anglosassoni vivono in una dimensione di mercato pienamente realizzata. Lì, storicamente e culturalmente, alla base di tutto è l’individuo, i suoi diritti e le sue qualità. L’Europa vive ancora una fase eroica, per così dire, della sfera comunitaria. È il gruppo cui si appartiene a prevalere sull’individuo.
Per molti è proprio questa la cifra irriducibile della civiltà europea. «Non vogliamo essere come l’America», grida Bové alla testa dei paysan francesi fuori le mura di Seattle e Davos.
Chi grida questo lo fa perché è un imprenditore protetto dalla politica agricola protezionistica dell’Unione Europea. O magari perché appartiene a un partito politico, che prende voti da chi vuole mantenere il welfare europeo così come oggi lo conosciamo, cioè rigido e incapace di adeguarsi all’evoluzione della struttura economica. Oppure ancora perché parla a nome di un sindacato che, come tutti i sindacati, teme un mercato del lavoro flessibile che sfugge dal controllo delle contrattazioni centralizzate. Sono queste corporazioni il problema europeo. La presa molto solida che esse esercitano sull’Europa. E che si traduce in uno svantaggio per gli europei che stanno peggio, i meno qualificati, gli immigrati, soprattutto quelli dal Terzo mondo.
Ci sono anche molti intellettuali europei a rifiutare un mondo a stelle e strisce.
Alt, ecco un pericoloso equivoco da chiarire. Non c’è alcun mondo omologato nel mercato integrato. La convergenza di reddito pro capite tra paesi avanzati e paesi in via di sviluppo è un conto. Essa avviene e avverrà, a misura in cui i singoli paesi si diano istituzioni capaci di garantirla. Ma saranno proprio la cultura e le istituzioni di ciascun sistema paese a farlo specializzare in questa o quella attività. Le differenze restano il sale della storia, oltre che della teoria del vantaggio competitivo. La realtà europea di questi ultimi anni ci dimostra che ci sono paesi periferici, h. rispetto al nucleo franco-tedesco, paesi che erano in ritardo, come l’Irlanda e il Portogallo, che sono stati capaci di rimontare in pochi anni le posizioni e oggi sono alla testa della classifica della crescita, creano più posti di lavoro e attira- :no più investimenti. E non hanno rinunciato ad alcuna delle loro specificità. hanno solo introdotto riforme.
Torniamo agli intellettuali.
Ah, gli intellettuali. Contro la globalizzazione ce ne sono sia di destra sia di sinistra. Come ci sono partiti politici che in Europa incarnano le paure dei ricchi sia da destra sia da sinistra. Perché nei ricchi dobbiamo includere non solo i render ma, su scala mondiale, anche l’operaio ipertutelato svedese o italiano. Sarò sincero, nella grande alleanza tra protezionisti nazionalisti di destra e collettivisti tribalisti di sinistra, è la sinistra a preoccuparmi di più.
Perché?
Innanzitutto perché in Europa oggi esercita responsabilità di governo preminenti. Ma soprattutto perché soffre di una frustrazione storica. È la sinistra che ha avuto l’idea di liberare il Terzo mondo. Solo che a liberarlo non è Che Guevara o il socialismo. È il capitale. Questi intellettuali di sinistra nel ’68 hanno dimenticato Marx e le sue parole sulla forza di sviluppo del capitale. E hanno pensato che i poveri sarebbero stati liberati attraverso la politica. Ecco perché dico che la sinistra che dice no alla globalizzazione, in realtà, ha un problema di identità politica, di conti mal atti con la propria storia. Perché in realtà dice no al miglioramento delle condizioni di milioni di svantaggiati. E ci fa correre un tremendo rischio.
Professor Rojas, ma allora il suo ottimismo va a farsi benedire…
Al contrario. Ma dobbiamo ricordare il passato per evitare i suoi errori. Come storico economico, ricordo che già una volta si è verificato un grande salto indietro nel cammino verso un mondo economicamente integrato. Avvenne negli anni Venti e Trenta, dopo la prima guerra mondiale, che segna la fine della prima globalizzazione. Anche allora fu l’Europa a offrire, sia da destra sia da sinistra, un valido pretesto alla rinascita dello spirito protezionista americano. Sappiamo com’è andata a finire. Oggi questo rischio potrebbe ripetersi. Ma io resto ottimista.
È con le politiche redistributive che l’Europa può vincere le sue paure, convincere i suoi elettori e sindacati?
Credendo in una formula nuova. Non più, come faceva il vecchio welfare europeo, redistribuendo risorse, ma distribuendo opportunità.
Tweet
febbraio 17, 2000