A essere pessimisti non si corre nessun rischio, a essere liberisti, nel nostro paese, sì. Questa è la considerazione che viene in mente leggendo il Geronimo di giovedì, quello su banche e fondazioni. Il nostro, sostiene pessimista Geronimo, non è un mercato: una Borsa asfittica, dove i piccoli risparmiatori sono taglieggiati, i fondi pensione non esistono, e scorrazzano le mani forti. Chi conta su un mercato siffatto per restituire alla proprietà privata le banche possedute da fondazioni non può non avere un altro disegno, quello di consentire a quelle stesse mani forti di impadronirsi prima delle banche e poi delle privatizzande Enel, Stet. Conclusione: il liberismo non fa per noi, lasciamo perdere le privatizzazioni: in queste condizioni sarebbero solo occasione per un «esproprio non proletario».
Eletto nelle liste progressiste, presentatore del progetto di privatizzazione delle banche, noto con moderato piacere che Geronimo mi risparmia i luoghi comuni, e mi lascia la scelta tra essere ingenuo ed essere in malafede.
Ingenuamente rivolgo una domanda al pessimista Geronimo: se la situazione è quella che descrive, come pensa di uscirne? Cariplo, S. Paolo e Banca di Roma già esistono, e non c’è mercato. Se lasciamo allora stare tutto com’è, da dove ci arriverà? Supponiamo che Molinari, Zandano, Capaldo si mettano a fare un po’ di guerra (vera o finta) a Cuccia: avremo per questo un mercato (come lo intendono, è ovvio, i liberisti)?
Il mercato è anche e in primo luogo mercato dei diritti di proprietà. C’è mercato quando soggetti privati, risparmiatori, fondi pensione, fondi d’investimento, imprese private, possono contendersi il controllo di altre imprese: banche comprese. Ci sarà mercato quando si sarà allargato, quanto a investitori e quanto a occasioni di investimento. E quando ci saranno delle regole (ne ho sentito parlare alquanto dalle mie parti): queste si affermano non solo se le impone un moralista illuminato, ma se il mercato le riconosce necessarie per poter funzionare.
La mia proposta allarga il mercato. Quello degli investitori, offrendo a dipendenti e clienti delle banche uno sconto, che potranno o monetizzare o utilizzare per acquistare azioni delle banche: e stiamo parlando di 10, forse 20 milioni di risparmiatori. E quello delle occasioni di investimento, le banche appunto (ma per la stessa ragione mi batto perché vadano sul mercato diverse aziende di distribuzione e di generazione di energia; e perché le reti cavo siano occasione di iniziativa per aziende, anche del settore televisivo privato, e non rafforzamento del monopolio Telecom).
Sono ingenuo a pensare che non si è condannati ad avere un mercato asfittico e truccato, senza reale concorrenza? Sono ingenui, alla stessa stregua, quelli che pensano che non si è condannati ad avere per sempre un sistema politico bloccato, senza reale alternanza?
La mia proposta ha avuto anche critici seri: questi condividono l’obbiettivo che le fondazioni debbano vendere le banche, ma sostengono che a questo risultato si debba giungere obbligando le fondazioni a finanziare iniziative di cultura, formazione, assistenza. Non così Geronimo. Geronimo ricorda certo che una giurisprudenza di oltre 50 anni ha sempre considerato le fondazioni bancarie enti pubblici: ma poiché un referendum ha sottratto al Tesoro il potere di nomina, e Amato ha imposto (!) la separazione tra fondazione e banche, oplà, le fondazioni sono diventate private. Geronimo ricorda – e come potrebbe non ricordare? – che i vertici delle fondazioni bancarie (che o sono nominati da enti pubblici, Regioni, Comuni e Province, o si perpetuano per cooptazione) erano il luogo della più sofisticata lottizzazione partitica: ma se il consociativismo è finito, perché porsi il problema?
«Chi controllerà quegli istituti bancari diventerà anche padrone delle grandi aziende pubbliche in corso di privatizzazione», scrive Geronimo. Se il mercato è troppo rischioso, se è meglio lasciar tutto com’è, allora la frase va declinata al presente: chi controlla le banche diventerà padrone delle aziende pubbliche.
Ecco, adesso al pessimista Geronimo ritorna la speranza: una privatizzazione all’insegna dell’alleanza tra manager degli attuali enti pubblici e attuali vertici delle banche pubbliche, a garanzia di assetti di potere pietrificati.
E poi ci offendiamo se il Financial Times ci invita a quotare le imprese a Wall Street!
ottobre 14, 1995