Le alternative
Non è giunta come una sorpresa l’offerta di Telefonica di aumentare la propria quota in Telco, diventandone il primo azionista: non è che un’azienda compera il 40% del controllo di un suo concorrente e poi resta ferma per sempre. Ma quando sui giornali gli articoli sulla Telecom contendono lo spazio a quelle su Alitalia, e pochi giorni prima a quelli sulle aziende a partecipazione pubblica o dei rami di azienda che il governo Letta intende mettere in vendita, allora è impossibile non vedere il filo rosso che unisce tutti questi avvenimenti: stiamo assistendo a un ulteriore capitolo del processo di privatizzazioni. E allora è impossibile resistere alla tentazione di autocitarsi: dopo 22 anni, conto sulla prescrizione. “Perché non fare un inventario di tutte le aziende o rami d’azienda [interne ai macrosettori delle PPSS] che potrebbero essere convenientemente isolate e vantaggiosamente vendute?” Era il luglio del 1992, lo scrivevo sul Sole24Ore, che, con efficace enfasi, aveva titolato il mio pezzo “Vendiamo i bonsai di Stato”. In USA si stava dimostrando quanta efficienza economica ci fosse da guadagnare e quanto valore finanziario da estrarre smontando le conglomerate. Da noi c’era una ragione in più per farlo, noi avevamo bisogno di creare un mercato là dove non c’era: le privatizzazioni non potevano ridursi a un passaggio di proprietà, dal pubblico al privato. Nelle Partecipazioni Statali si erano formate aggregazioni che non rispondevano a logiche di mercato, erano state fatte per accrescere il potere, per salvare aziende, per occupare persone: quei legami andavano smontati.
Prevalse invece una concezione diversa: invece di smontare quei conglomerati artificiali e lasciare che fosse il mercato a ricomporne i pezzi, quegli aggregati li si è conservati, per giunta coltivando l’aspettativa che nel libero mercato ripetessero, maggiorati, i “successi” del monopolio. Con capitale diverso, ma sempre “national champions”. Non si è mai accettato il fatto che un’azienda privata può essere condotta bene o male, aggregare o essere aggregata, crescere o fallire, perché è “l’intelligenza del mercato”– per parafrasare il titolo del fortunato libro di Alberto Mingardi – a riallocare quote di mercato e profitti. Non si è mai accettato che un’azienda, in un mondo globalizzato dalla tecnologia e dai capitali, possa perdere la sua ormai solo nominale identità nazionale.
Venne il 1996, venne il momento della madre di tutte le privatizzazioni, quella di Stet-Telecom: “è responsabilità [del Governo] – cito, contando di stare ancora nei limiti della prescrizione, quanto scrivevo nel febbraio del 1996, sempre sul Sole24Ore – dare al Paese un sistema concorrenziale nelle telecomunicazioni: cioè non solo eliminare il monopolio, ma ridurre la posizione dominante che Stet-Telecom ha acquisito in tanti anni, e che continuerebbe ad avere anche in regime liberalizzato, ove fosse mantenuta nel suo attuale perimetro aziendale e nell’attuale ambito concessorio”. Proponevo pertanto di vendere tutta TIM, che era già quotata, dando a Telecom un’altra licenza per il mobile: nel mobile si sarebbe così avuta concorrenza fra tre e non solo tra due gestori (l’altro, per chi non lo ricordasse, era Omnitel dell’Olivetti), la ridotta dimensione dell’investimento per acquisire il controllo di Stet-Telecom avrebbe potuto attrarre un maggior numero di investitori, e si sarebbe avuta una chiara separazione tra aziende di mercato ed aziende regolate. Col senno di poi si può aggiungere che le spese folli per l’UMTS sarebbero state sostenute dalla sola TIM e Telecom avrebbe mantenuto le riserve necessarie per l’ammodernamento della rete.
Adesso sulla proposta di Telefonica, si faranno le indispensabili valutazioni economiche, fioriranno le inevitabili reazioni “politiche”. In ogni caso sarà utile esaminare anche altre soluzioni. A questo fine re ricordare quanto si diceva 22 anni fa sulle privatizzazioni in generale e 17 anni fa su quella di Telecom può non essere inutile. Già pochissimi giorni fa, quando Franco Bernabè aveva annunciato di volere societarizzare tutte le attività, “ribrandizzandole”, magari cambiandogli nome, era parso che questo potesse essere il primo passo per attuare, da azienda privata, il suggerimento scartato vent’anni fa dall’azienda pubblica. Che sia stata questa considerazione a indurre gli spagnoli a farsi avanti con la propria offerta? Ormai è chiaro che la connettività mobile è una commodity, che i player mondiali saranno tre o quattro e che nessuno di loro è italiano. Cedere TIM, Italia e Brasile, potrebbe essere una mossa alternativa per dare stabilità al gruppo, riportandolo a un indebitamento sostenibile. A quel punto si potrebbe discutere senza affanno del resto, avendo chiaro che la separazione della rete fissa della sua gestione, improponibile sempre, lo è ancor è più oggi per ragioni tecnologiche. Gestire con profitto una rete fissa non è semplice, pianificare e disegnare l’ammodernamento tecnologico per portare la fibra in tutte (proprio tutte?) le case, ancor meno. Se qualcuno della compagine azionaria di Telecom, ritiene di saperlo fare con profitto, benissimo. Altrimenti, a beneficio di tutti, azionisti e consumatori, pubblico e privato, si lasci che sia il mercato a decidere: scegliere e lasciar scegliere è quello che sa fare meglio.
*Testo completo dell’articolo pubblicato sul Sole 24 Ore
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settembre 25, 2013