E Finmeccanica si espande…

novembre 4, 1995


Pubblicato In: Giornali, La Stampa


Negli Stati Uniti quotare un’impresa si dice to go public: a indicare che una società quotata può essere ‘di tutti’. In Italia invece ciò che è pubblico è, per definizione, sottratto alla competizione per la proprietà, quel meccanismo che, consentendo alla persona più idonea di controllare l’impresa, permette al sistema di raggiungere l’efficienza ottimale. Questa osservazione linguistica di Giacomo Vaciago sembra adattarsi assai bene a due vicende recenti, la vendita della prima tranche di Eni e l’acquisizione della Hartmann&Braun da parte di Finmeccanica.

Il Tesoro vende il 20 per cento di Eni: difficile fare di più, l’operazione è già gigantesca paragonata al volume di affari della nostra Borsa. Gli investitori accorrono: l’azienda rende, l’attuale management ha dato prove che meritano fiducia. Ma la mano dello Stato rimane pesante: nessuno può acquistare più del 3 per cento delle azioni, il Tesoro si riserva il parere di gradimento di futuri soci, potrebbe sostituire il management attuale, con la golden share si attribuisce sterminati poteri. Anche se questa non sarà che la prima fase dell’operazione, è facile capire se l’Eni sarà public in senso anglosassone, o resterà ‘pubblica’ in senso italiano.
In questi stessi giorni, Finmeccanica compera la Hartmann&Braun e diventa uno dei colossi mondiali dell’automazione industriale. Operazione ispirata a un chiaro disegno strategico, condotta da uno dei management più capaci – va riconosciuto – dell’imprenditoria pubblica. L’operazione dovrebbe essere finanziata parte con dismissioni, parte con indebitamento della stessa Finmeccanica, si spera senza garanzie del Tesoro. E quindi tutti da noi hanno inneggiato al successo. Eppure a quegli investitori stranieri che hanno messo mano al portafoglio per sottoscrivere le azioni Eni deve essere sembrato alquanto contraddittorio da un lato apprendere dal ministro Clò che se l’IRI non vende e non riduce l’indebitamento deve portare i libri in tribunale, dall’altro vedere che un’ azienda controllata dallo stesso IRI procede autonomamente ad acquisizioni ed espansioni. Di questa contraddizione è autorevole interprete il Financial Times che rilevato che il prezzo dell’acquisizione ha lascito «attoniti» gli osservatori – si domanda come tutto ciò si concili con la recente dichiarazione resa dal Tesoro, voler dividere Finmeccanica per renderne più facile la privatizzazione. Insomma a chi dare retta, alla holding controllante che annuncia dismissioni, o al manager della controllata che va nella direzione opposta e si espande?
Questi segnali contrastanti ancora una volta non consentono di chiarire l’interrogativo di fondo: in Italia si privatizza per stato di necessità delle finanze pubbliche, o per creare opportunità per l’economia? Si rimane all’obbiettivo di combinare la proprietà pubblica con il modello imprenditoriale, (come auspicava il governatore di Bankitalia nelle considerazioni finali del 1987) o si vuole realizzare il meccanismo di mercato che «assicuri agli individui dotati di capacità imprenditoriali l’accesso alla direzione delle imprese», (come raccomanda un diverso governatore nelle considerazioni del 1993)? Ci si accontenta di liberare il management delle aziende pubbliche dalle più vistose interferenze politiche, lasciandoli perseguire autonome strategie, o l’obbiettivo è quello di restituire aziende scalabili al mercato?
Qual è lo scopo vero delle privatizzazioni i mercati lo capiranno quando in vendita non saranno più messe imprese decotte o senza prospettiva, e neppure quando (e se) la vendita delle aziende di pubblica utilità segnerà la fine dei loro monopoli, ma quando si deciderà di far diventare public (in senso anglosassone) qualche impresa che va bene: a incominciare ad esempio proprio da alcune aziende della Finmeccanica.
Il ministro C16 in una recente intervista rivendica allo Stato il compito di fare politica industriale. Ma la prima scelta è decidere chi di questa politica deve essere protagonista, se pubblici o privati. Il discrimine non potrebbe essere più netto: per chi guarda all’Italia e investe in Eni oggi, domani in Enel o Stet, ma anche per chi in Italia vive e lavora.

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