Bisogna pur capire perché, nonostante lo spettacolo messo in scena dalla RAI, protagonisti i suoi consiglieri, nonostante i tormentoni tra cui i CdA vengono partoriti, nonostante la – diciamo – singolarità di un intero sistema televisivo che ha un’unica persona come responsabile ultimo, nonostante la tassa per tenere in vita un’azienda che propone le stesse gambe, mezzibusti, clown e domatori che offre gratis il concorrente: bisogna pur capire perché, nonostante tutto questo, la RAI non viene privatizzata a furor di popolo.
Perché non avviene? Ricordo un girotondo, intorno a Viale Mazzini: i manifestanti, circondando la sede del vertice RAI, volevano proteggerla dall’esterno; non si accorgevano che il loro nemico era già all’interno, e che lo stavano difendendo, con la loro catena umana, dalle uniche forze capaci di batterlo, quelle del mercato concorrenziale. Una innaturale alleanza difende la RAI pubblica. Tra chi é convinto che solo la proprietà pubblica possa realizzare il suo ideale, un servizio che produca trasmissioni di “qualità” e di successo, un’informazione “imparziale” e pluralistica . E i partiti politici che detengono la proprietà dell’azienda. Non lo si dice per forzatura polemica: chi decide la composizione del Consiglio di Amministrazione, elegge i controllori della Commissione di vigilanza nonché quelli della Commissione di garanzia, ha di fatto poteri maggiori di quelli di un normale proprietario. Neppure lo si dice per una forzatura populista: i partiti non si appropriano illegalmente di “beni”, i partiti organizzano il consenso, come sta scritto nella Costituzione; i dividendi che esigono non hanno valore economico, ma di consenso politico. I nemici della privatizzazione della RAI stanno nei partiti di destra come in quelli di sinistra. E in questi giorni hanno, sia gli uni che gli altri, di che dolersi per la loro posizione. Chi intorno a Berlusconi credeva di aver furbamente fatto un mezzo passo indietro lasciando a Casini e altri l’onere della scelta della guida dell’azienda, si vede imputato il prezzo del fallimento mentre è Casini a sembrare tra i riformatori. Chi a sinistra accusa Berlusconi di essere Behemoth, senza privatizzazione non trova dalla sua parte le imprese che sarebbero pronte a far concorrenza a Mediaset.
Nella passata legislatura, c’é stata una finestra, in cui l’Ulivo avrebbe avuto interesse a vendere la RAI: ma invece di realizzare una riforma, che tra l’altro avrebbe impedito al padrone di Mediaset di conquistare la RAI, ha cercato vanamente di obbligarlo a separarsi dalla sua proprietà. E oggi, perché mai Berlusconi dovrebbe voler modificare una situazione così favorevole (a lui e a Fedele Confalonieri)? Solo una forte pressione dell’opinione pubblica può convincere il potere politico a lasciare la presa. Bisogna rompere quella innaturale alleanza, bisogna agire sui volonterosi involontari aiutanti delle presa dei partiti sull’azienda pubblica. Bisogna chiedergli: che TV volete avere? cultura? formazione? educazione civica? garanzia di pluralismo? protezione dei minori? Non c’è nulla che possa essere scritto in contratto che lo Stato non possa chiedere come condizione per l’uso di una risorsa scarsa, le frequenze dello spettro, e chiederlo a tutte le imprese che ne fruiscono. Se proprio si insiste, si tenga una rete pubblica, come negli USA. Sia Bruxelles che la Corte chiedono la separazione delle attività finanziate dal canone da quelle pagate dalla pubblicità: con il che, sia detto per inciso, cade anche l’argomento secondo cui il mix di mezzi finanziari ridurrebbe la tirannia dell’auditel, e consentirebbe alla TV pubblica un migliore livello qualitativo anche nelle sue trasmissioni generaliste.
E’ il momento di uscire con un messaggio semplice: “la TV che volete”. E uno slogan semplice: “due contro due, in due”. Vale a dire: vendere due reti RAI, con vincoli uguali per tutti, entro due anni: ma sul serio, cioé interamente.
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dicembre 5, 2002