Le tentazioni neo-prop, la debolezza della politica e la speranza riformista (che non muore)
Sabato scorso, al seminario di Libertà Eguale a Val Màsino, Pietro Modiano, il numero due di Unicredito, invitava a guardare al di là delle ingombranti immagini dei poteri cosiddetti forti, che poi a volte più che forti sono esausti. L’Italia, diceva, è popolata da migliaia di imprese che lavorano, che guadagnano, che mantengono il valore assoluto delle proprie esportazioni, che viaggiano per il mondo, che a migliaia sono in Cina alla ricerca di opportunità. “Sono i nostri clienti”, concludeva, “li conosciamo uno per uno”. E mi chiedevo: Perché il centrosinistra non dovrebbe proporsi da dare rappresentanza politica a questo mondo? Perché il centrosinistra non dovrebbe risultare credibile facendo proprio questo messaggio?
Io non ho dubbi: tra questa strada, e quella del neo-proporzionalismo di cui si scrive e si parla, io scelgo la prima. Per vincere le elezioni, e per il futuro del nostro paese.
Le discussioni sul neo-proporzionalismo sono il prodotto del vistoso sommovimento causato dalle elezioni europee: a stupire è solo la rapidità con cui si è verificato. Dimostrazione del fatto che si tratta di una crisi sistemica: la crisi del sistema coalizionale. La Casa delle Libertà è entrata in crisi perché il perno centrale che la regge, Berlusconi, si è indebolito in modo impressionante; il centrosinistra perché quello che doveva esserne il perno, Uniti nell’Ulivo, non è riuscito a convincere della sua robustezza. Se vengono meno i perni che tengono insieme le coalizioni, cambiano le convenienze dei partiti che le compongono: i vantaggi che essi possono ottenere esaltando la propria identità superano quelli che derivano dall’appartenere a una coalizione. Non c’è di che scandalizzarsi, è esattamente quello che prevede la teoria della public choice: l’obbiettivo delle dirigenze dei partiti è rafforzare se stesse.
Si dice proporzionale: ma quale? In un parlamento che ha stabilito la soglia di accesso al finanziamento pubblico allo 0,9%, per definizione non si dà clausola elettorale di sbarramento più alta di quella fissata per il finanziamento. Per avere i voti necessari a introdurre leggi elettorali o regolamenti parlamentari che riducano la frammentazione, ci vuole o una maggioranza schiacciante all’interno di un polo, o un accordo bipartisan, e questo è possibile solo se le nuove norme sono ritenute, da entrambi i poli, del tutto neutrali rispetto al risultato elettorale. Ma se si dessero queste condizioni, non ci sarebbe frammentazione. E poi é impossibile fare coesistere una legge elettorale proporzionale con premio di maggioranza con il cambio di guida del governo. Non pigliamoci in giro: proporzionale vuol dire andare alle elezioni ognuno per conto proprio con la propria immagine, e formare piattaforma programmatica e coalizione dopo le elezioni.
Io credo che abbia ragione Stefano Folli, nel suo editoriale di domenica scorsa: gli italiani, la grande maggioranza degli italiani questo non lo vuole; pur con tutte le critiche su quanto é stato fatto negli ultimi 10 anni, non vuole essere privata del potere di indicare da chi vuole essere governata. E questo, proprio in termini di public choice, é il limite che le dirigenze dei partiti devono fare attenzione a non superare.
Per questo io non sono così pessimista come lo era il Direttore del Riformista nel suo editoriale apparso lunedì. Anzi sono sempre più convinto che il partito, o la federazione, o come volete chiamarla, dei Riformisti abbia dalla sua la forza delle cose necessarie.
Chi pensa a un ritorno al proporzionale, pensa di trovare conferme in quanto sta accadendo nella parte più in vista del nostro capitalismo. L’elezione di Luca Cordero di Montezemolo a Presidente di Confindustria, essa stessa frutto del superamento di una fase di vivace contrapposizione tra grandi e piccoli, si é subito segnalata per una disponibilità al dialogo con la più arcigna tra le controparti sindacali, per una volontà di concertare che addirittura precede l’individuazione dei contenuti da mettere sul tavolo. Il cambiamento nella “coalizione dei poteri” si è emblematicamente materializzato nel rinnovo del patto di sindacato della società editrice del Corriere della Sera: i nuovi attori che vi hanno preso posto sembrano caratterizzarsi per duttilità e pragmatismo; é uscito Alessandro Profumo, che si é dichiarato interessato solo a fare il banchiere; é entrato Cesare Geronzi.
Ma in questi segnali la propensione al neo-prop non c’entra nulla. Si tratta, come sempre, del rapporto tra mondo degli affari e mondo della politica, e del tentativo di approfittare della debolezza della politica per determinarne i termini più favorevoli. Lo si é visto all’Assemblea dell’ABI. Berlusconi chiudeva la querelle con Bankitalia archiviando la discussione su poteri e durata in carica del Governatore, ridisegnava la riforma fiscale secondo “curve più armoniose”. E il Presidente Maurizio Sella, annunciava che ” le banche hanno prefigurato un organismo destinato a integrare, mediante il rilascio di garanzie che tutelino la pubblica amministrazione sulla corretta esecuzione delle opere, la capacità finanziaria delle imprese coinvolte”. E, secondo alcune interpretazioni, pronto ad offrirsi di surrogare la Cassa Depositi e Prestiti non solo nelle istruttorie, ma anche nell’erogazione del credito agevolato sostitutivo del fondo perduto per le imprese del Mezzogiorno: naturalmente con la garanzia dello Stato. Governare il flusso del credito, con profitti e senza rischi: davvero, il sistema bancario si conferma come l’unico potere che sia veramente tale.
E’ molto frequentato oggi il tema del “declino”. In realtà, che cosa sia necessario fare per invertire la tendenza, a grandi linee lo sappiamo: bisogna aumentare l’input, cioè la partecipazione al lavoro dei cittadini tra 16 e 64 anni, soprattutto donne; e bisogna aumentare la produttività, con misure microeconomiche che eliminino i poteri di confraternite e corporazioni, che liberalizzino, che modellino la cultura del paese in modo che si affermino criteri meritocratici ovunque, a incominciare da scuole e università. Posto che la naturale inclinazione dell’imprenditore è a guadagnare di più, posto che si guadagna di più diventando più grandi, se gli imprenditori scelgono di non crescere è perché percepiscono che i rischi sono maggiori e più probabili dei vantaggi: se vogliamo la crescita é quindi necessario aumentare gli uni e a ridurre gli altri.
Queste cose il paese le vuole, ha dato il successo nel 2001 a chi gliele ha promesse. Ammesso (ed é una spericolata ammissione) che ci fosse un’ispirazione, o forse anche solo un’aspirazione in questo senso, é del tutto scomparsa con l’uscita di Tremonti. “Ce qu’a vu le vent du Sud” verrebbe da parafrasare: oggi parla di Partecipazioni Statali, di Ministero del Mezzogiorno che prosegua, magari in peggio, la disastrosa politica degli ultimi 10 anni, Non é che il fallimento della destra nel realizzare il suo programma faccia cambiare idea agli italiani. La storia é lì a dimostrarlo: non c’è nessuna possibilità che, per disgusto verso Berlusconi, gli elettori siano disposti ad abbracciare il programma di una ipotetica sinistra da Morando a Bertinotti, che viene poi a qualche compromesso con una Margherita che avrebbe ben bene rastrellato il centro strizzandogli un occhio. Per la sinistra, se vuole vincere, non ci sono alternative ad un progetto riformista che nasca unitario, elaborato da un soggetto politico unitario. Che non ci siano alternative per il Paese, i risultati di questi tre anni e la cronaca politica di questi giorni dovrebbero almeno farlo sospettare. Abbiamo sbagliato anche noi molte cose, quando abbiamo governato. Anche noi siamo stati vittime di ideologie, non siamo riusciti ad imporci alle corporazioni e agli interessi coalizzati. Non dobbiamo cambiare obbiettivo: dobbiamo solo dimostrare che abbiamo imparato. Se non lo faremo, la colpa della deriva neo-proporzionalista sarà stata anche nostra.
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luglio 15, 2004