Non demonizzare, ma neanche assecondare ciecamente la piazza
Che cosa vogliono quelli che, nell’Europa continentale, marciano per la pace? Oltre alla fine della guerra, che cosa vogliono veramente che succeda? A parte il riflesso pavloviano di alcuni che devono aver partecipato – magari con i calzoni corti – alle manifestazioni dei partigiani della pace, a parte l’anticapitalismo dei no global, la maggior parte dei manifestanti, se gli si pone la domanda, non desidera l’umiliazione dell’America.
Sono persone in buona fede, li anima il convinto rifiuto di ogni azione militare. L’impulso nato nell’Europa continentale 58 anni fa – tanti ne sono passati dalla fine dell’ultima carneficina compiuta sul suo territorio -, coltivato durante la guerra fredda, vissuta talvolta come un incubo, sempre come una sotterranea inquietudine, con la caduta del muro è parso poter diventare certezza: quella in Serbia era l’ultimo retaggio del mondo diviso in blocchi, e la Francia che manda i suoi legionari in Africa il riflesso di ex potenza coloniale. Ma l’epoca delle guerre é finita: questo impulso è diventato, nell’Europa continentale, fondamento di civiltà.
Con il che si apre, per il politico, una doppia partita. Perché sbaglierebbe a condannare questo sentimento, a considerarlo brodo di coltura delle violenze di chi si fa trofeo delle pistole della benzina o di chi si stacca dai cortei per spaccare la vetrina di un Mc Donald, senza vedervi la richiesta di gestire sempre i conflitti in modo multilaterale. Ma sbaglierebbe anche se si limitasse ad assecondare questo sentimento: perché significherebbe fare la scelta di fondo di non concorrere a determinare gli assetti del mondo dopo l’11 di Settembre, e quindi di assegnare all’Europa un ruolo marginale non tanto nella risposta al terrorismo, ma negli equilibri mondiali che deriveranno dalla risposta al terrorismo. Sarebbe, in fondo, tradire la buona fede e il sentimento più profondo di chi in questi giorni manifesta per la pace.
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marzo 28, 2003