Due ipotesi per il domani dell'Unione e del Paese

maggio 1, 2006


Pubblicato In: Varie


Il dopovoto

Quanto tempo pensa di durare la maggioranza che ha vinto le ultime elezioni? La domanda non sottintende nessuna sfiducia nella sua capacità di tenuta, ed assolutamente non nasconde una provocazione. Vuole invece indurre a una riflessione su sul rapporto tra ampiezza dell’orizzonte temporale e strategie, che si tratti di strategie industriali, finanziarie, o politiche.

Facciamo due casi estremi: il primo che Prodi consideri realisticamente impossibile assicurare governabilità con una maggioranza così risicata, e che quindi convenga prepararsi per andare a votare a primavera; il secondo, che pensi invece di farcela lo stesso a condurre il Paese fuori dalle secche della crisi, a portare a termine questa legislatura e rivincere tra cinque anni. Queste due diverse prospettive temporali, mesi da un lato, anni dall’altro, dànno luogo a due strategie totalmente diverse. Non penso alle strategie di governo, quelle che presiedono il fare; penso piuttosto a quelle che presiedono l’essere, ai modelli che si vogliono dare al Paese e all’immagine politica che si vuole dare di sé. E non l’essere proprio dell’élite politica che governa il Paese, ma l’essere dei cittadini, incominciando dai propri elettori, dai loro rapporti con gli altri concittadini e con lo Stato. E’ chiaro che se i leader dell’Unione pensano di andare a votare all’inizio della prossima primavera – essendo tecnicamente difficile poterlo fare prima – neppure si porranno il problema di come modificare i valori in cui crede il proprio elettorato, i modelli di società a cui tendono. In questo caso la strategia dell’Ulivo si ridurrebbe di necessità a consolidare, confermandoli, convincimenti e motivazioni del proprio elettorato; potrebbe solo mirare ad esaltare i caratteri radicali della propria identità, evitando solo gli ”errori di comunicazione” che a momenti hanno rischiato di farli perdere. L’Unione rimanderà a tempi migliori di parlare a tutti gli italiani, e cercherà solo di riconquistare coloro che all’ultimo momento sono fuggiti spaventati da alcune inopportune dichiarazioni (sulle tasse, sulla successione, sulla casa). E rinuncerà a parlare a tutti gli italiani, a colmare il fossato che li divide e che la campagna elettorale ha approfondito.
Nell’altro caso, l’Unione dovrà invece dimostrare che i propositi con cui si è incominciata la campagna elettorale – noi uniremo ciò che Berlusconi ha diviso – non erano retorica strumentale, buonismo di facciata; essi saranno lo strumento per conseguire l’obbiettivo politico di allargare la propria base di consenso, e di lasciare un Paese più unito di quello che si è trovato. E’ di questo caso che intendiamo occuparci.

Da che cosa è prodotta la spaccatura nel Paese? In primo luogo è il giudizio su Berlusconi e sul berlusconismo, la forte avversione che provocano in larga parte dell’elettorato dell’Unione. Sanare la spaccatura implica necessariamente il superamento dell’antiberlusconismo come elemento identitario e coesivo dell’elettorato dell’Unione. Se fosse tutto qui, sarebbe una strategia ovvia: perché tra cinque anni una candidatura di Berlusconi sarebbe improponibile per ragioni anagrafiche, e chi ne erediterà il capitale politico vorrà usarlo per un proprio disegno, e non per riproporre le politiche di Berlusconi e il suo irripetibile modo di venderle al Paese. L’antiberlusconismo verrà abbandonato senza bisogno di scelte politiche positive, solo perché sarà stato Berlusconi ad abbandonare il proscenio politico e le sue luci.
La rinuncia all’antiberlusconismo non è dunque sufficiente per un’Unione che voglia lasciare un segno nella società italiana, fare dell’Italia un moderno Paese del nuovo capitalismo, quello del primato della conoscenza in un mondo globalizzato. Per riuscirci, dovrà proporre nuovi valori e una nuova visione di società, e dovrà convincere in primo luogo i propri elettori. Non basterà all’Unione assistere alla fine naturale dell’antiberlusconismo: dovrà bonificare il terreno su cui l’antiberlusconismo è nato, cresciuto e si è radicato. Dovrà convincere i propri sostenitori ad abbandonare una lettura della nostra storia per cui il berlusconismo non è che l’ultima reincarnazione di un’Italia deteriore, la stessa che ha dato vita al fascismo, al craxismo, alla corruzione diffusa e al bubbone che i magistrati di Mani Pulite hanno fatto scoppiare perché non ammorbasse il Paese. Un manicheismo che richiede che dall’altra ci sia un Paese virtuoso, quello della Resistenza e della Costituzione del ’48, quello che esprime la società civile che reagisce a Tangentopoli, che coltiva le virtù civiche, che o è colta o potrebbe diventarlo sol che non ci fosse la televisione a istupidirlo, un Paese che paga le tasse, che anela all’eguaglianza, che è solidale. Un Paese fatto di insegnanti, medici, impiegati pubblici, pronti a dare agli altri cittadini servizi di qualità sol che si abbandoni il modello competitivo e si ritorni a valorizzare senso del dovere e responsabilità.
Esagerazioni caricaturali? Si provi a passare qualche ora ad ascoltare Radio 3, i discorsi dei commentatori che vi vengono invitati, gli interventi degli ascoltatori; si veda se non viene fuori l’immagine di una parte del Paese che crede nelle virtù etiche dello Stato, che è convinto nel proprio profondo di essere nel giusto, di essere la parte sana della nazione. La radice dell’anitberlusconismo non consiste nell’addebitare vizi terribili agli avversari politici, ma nell’essere convinti di essere gli esclusivi portatori di salvifiche virtù. E quindi, se l’obbiettivo è di eliminare la spaccatura nel Paese, non basterà smorzare toni e colori della rappresentazione dell’altro, ma si dovrà lavorare sulla propria autorappresentazione. Bisognerà che vizio e virtù ritornino ad essere considerati come qualità positive e negative che si trovano variamente combinate in ciascun individuo, e non come caratteristiche che ontologicamente distinguono segmenti di società, e che condensano le preferenze politiche intorno a due assi che politicamente si contrappongono.

Modificare la cultura della propria constituency, indurla ad abbandonare i propri ancoraggi ideologici, può sembrare un proposito politicamente suicida: le loro certezze infatti sono tutt’uno con le loro scelte elettorali, la loro fedeltà esige dai governanti che ha eletto azioni di Governo che le confermino. Ma è un passaggio ineludibile per una forza politica che vuole guidare un Paese di capitalismo moderno come l’Italia ambisce a restare. Non solo perché un Paese spaccato in due non riuscirà a risolvere i suoi ben noti problemi strutturali. E neppure perchè si è visto che si incomincia con le virtù dello stato etico e si può anche finire con gli orrori dello stato totalitario. Ma perché ragionare con le categorie di vizio e virtù, anziché di interessi, e del modo di comporli ed usarli, rende impossibile scorgere con occhi scevri da pregiudizi la natura dei problemi che abbiamo dinnanzi, e affrontare con fiducia le soluzioni che possono risolverli. Invece il cittadino “virtuoso” si attende che lo stato intervenga per premiarlo, e, giudicando “virtuosi” gli uomini che ha mandato al governo, ne legittima l’intervento. Così lo stato etico è anche uno stato interventista e ingombrante.

Così, l’atteggiamento verso l’antiberlusconismo diventa la spia per comprendere qual è realmente la fiducia che questa maggioranza ha in se stessa e nella sua possibilità di durare.

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