Caro Direttore, «La “scure” di Draghi deve calare ancora, più dura e impietosa», ha scritto sul numero di Affari e Finanza dell’8 giugno scorso: i nodi che deve tagliare sono quelli con cui le banche provocano “l’asfissia finanziaria” delle imprese. Ne darebbero evidenza i loro bilanci, che per i ricavi contano sostanzialmente sul differenziale tra tassi attivi e passivi, e sul margine di intermediazione, e su cui gravano spese gonfiate da stipendi troppo elevati ai piani alti della piramide organizzativa.
Eppure c’è un passaggio che manca nel ragionamento: perché i vertici delle banche, normalmente così attenti ai voleri della “politica”, si espongono con pervicacia a queste accuse, del Governo e dei clienti?
Per capirlo é essenziale tenere separati i due fenomeni che si sovrappongono nella situazione in cui ci troviamo, la grande crisi finanziaria, e la grave recessione che ne é seguita. Due fatti distinti, dove le conseguenze si sommano, ma le cause e le caratteristiche sono diverse. La crisi finanziaria é (stata?) un fenomeno eccezionale, ha evidenziato problemi per la leva eccessiva nei bilanci, e per la cattiva qualità nell’attivo. Eccezionali sono state le risposte dei vari Governi, chi ha nazionalizzato, chi ricapitalizzato, chi fatto prestiti. Le misure prese dalle autorità italiane sembrano adeguate; se così non fosse, toccherebbe al Tesoro disporre altri interventi, e all’Autorità di vigilanza farli accettare. Può darsi che sia in atto un braccio di ferro, dove i manager delle banche tirano i cordoni della borsa per tirare la corda al Governo, e ottenere condizioni più vantaggiose. In tal caso il nodo su cui deve calare la scure é senza dubbio quello di tali aspettative.
Ma per la recessione il discorso é diverso: se é vero quello che abbiamo detto, le banche dispongono di una struttura patrimoniale adeguata per affrontare un fatto in sé normale, vale a dire che in una recessione la quantità dei prestiti cala. Aumentano i crediti incagliati e quelli in sofferenza, si riduce la capienza per nuovi prestiti. Aumentano le aziende che li chiedono per coprire perdite, diminuiscono quelle che li vogliono per finanziare nuove iniziative, che sono intrinsecamente più rischiose. Decidere del merito di credito diventa difficile: ma é quello il mestiere del banchiere. Comunque una cosa é chiara: la responsabilità deve stare in capo a qualcuno che ne risponda. Non c’é terza via, non ci può essere un’autorità indipendente per il credito. Se la responsabilità non é della banca, é del Governo: si chiama nazionalizzazione. Non é certo questo che lei vuole quando parla di nodi da tagliare.
Allora i nodi vanno cercati a monte, nelle determinanti delle decisioni delle imprese, quelle che erogano credito e quelle che lo chiedono: bisogna agire sui loro interessi. Le crisi sono i momenti in cui i meccanismi di mercato fanno al meglio il loro mestiere: si redistribuiscono quote di mercato, si modificano strutture organizzative, si intraprendono strategie più vantaggiose. Se le banche preferiscono chiudersi a difesa delle proprie posizioni, anziché approfittare della crisi per conquistarsi clienti buoni, si rafforza il sospetto che tra loro non ci sia adeguata concorrenza. Se le imprese sane non osano abbastanza, ci sono ragioni per la loro renitenza a investire: e allora si dovrà pensare ad aumentare gli incentivi, magari detassando gli investimenti, e a ridurre certi rischi. Di questi, qual é tra i primi? Basta chiederglielo, risponderebbero che é quello di assumere e non potere fare marcia indietro se le cose dovessero andare male. Poca concorrenza e rigidità del lavoro sono certo due nodi da tagliare: ma le banche, che non li hanno annodati, non sono loro che ora li possono sciogliere.
Saremo più forti degli altri quando usciremo dalla crisi, ripete il Governo. Dimentica che eravamo più deboli quanto ci siano entrati, dopo un decennio in cui la nostra produttività non é cresciuta. Tante sono le cause dell’”asfissia” oltre a quella finanziaria: cito la rigidità del mercato del lavoro perché é rilevante e perché appare incomprensibile il rifiuto verso proposte che incontrano ormai il consenso di molti industriali e dei sindacati più accorti. Gli stratagemmi per evitare di assumere a tempo indeterminato ha indotto alle contorsioni di contratti di progetto dove non c’é progetto, di formazione e lavoro dove non c’é formazione, di partite IVA monoclienti, Qual é il pezzo pagato in termini di efficienza operativa, di mancato investimento in capitale umano? Le aziende pongono tutta la flessibilità all’esterno, dilatando subforniture affidate a cooperative o ad aziende con meno di 16 dipendenti: così la riduzione degli organici per effetto della crisi, peggiora la loro produttività, perché ad essere mandato a casa non é chi é meno produttivo ma chi é meno protetto. Tagliare i nodi é necessario. Ma un’attenta ricognizione della corda può consentire di individuarne altri: e quindi a chiedere l’intervento di mani diverse e strumenti diversi.
giugno 15, 2009