di Donato Masciandaro
Adesso se ne accorge anche il Fondo monetario internazionale: inondare il mercato di liquidità e portare verso lo zero i tassi di interesse non risolve il problema del credito alla piccola e media impresa, che impiega oltre il 70% della forza lavoro in Europa. Occorre altro. Nel suo rapporto periodico sulla stabilità finanziaria l’Fmi dedica attenzione all’inefficacia che le abbondanti iniezioni di moneta a tassi di interesse minimi attuati dalla Banca centrale europea stanno avendo in termini di credito per la parte del tessuto produttivo più rilevante in termini di occupazione: le Pmi. La questione è la rottura del l’ingranaggio che parte dalla moneta, passa dal credito e i depositi, e arriva a dar frutti in termini di investimenti, crescita economica e occupazione.
In tempi normali il meccanismo di trasmissione invierebbe regolarmente gli impulsi della politica monetaria fino agli investimenti delle Pmi, utilizzando come scatola di trasmissione il sistema bancario. La banca centrale può aumentare la liquidità acquistando titoli di Stato sul mercato o erogando il credito alle banche, che offrono titoli in garanzia, tipicamente obbligazioni di Stato. Le banche commerciali utilizzano le proprie disponibilità liquide per aprire linee di credito a favore delle Pmi, con garanzie di copertura. In aggregato, l’apertura di linee di credito, che vengono utilizzate, creano depositi. Per cui in un ingranaggio monetario ben funzionante la crescita della moneta, del credito e dei depositi si muovono tutte nella stessa direzione, con effetti positivi sugli investimenti.
Purtroppo questo ingranaggio oggi si è inceppato, particolarmente nei Paesi periferici dell’Unione europea, tra cui l’Italia. La Bce ha posto in atto una politica monetaria molto espansiva, prima con Trichet ma soprattutto con Draghi. Le banche hanno accesso alla liquidità a tassi inferiori all’uno per cento. Ma lì il meccanismo si blocca: le banche non hanno sufficienti incentivi a creare nuovo credito commerciale, per il combinato disposto di tre fattori. Da un lato la domanda di credito espressa dalle Pmi viene percepita come eccessivamente rischiosa o improduttiva, rispetto a quelli che sono i possibili rendimenti attesi in termini di tasso.
Qui si coglie un subdolo effetto distorsivo e non voluto di una politica monetaria con tassi tenuti molto bassi per periodi di tempo prolungati: la remunerazione attesa non copre il rischio percepito, quindi si rinuncia a far credito. Dall’altro lato le banche hanno aumentato la loro avversione al rischio di rimanere illiquide, per cui le disponibilità liquide assumono una funzione assicurativa; ma assicurarsi costa, visto che il funding bancario è divenuto più oneroso, vuoi per la concorrenza tra banche vuoi per la competizione esercitata dai titoli di Stato.
Infine, le banche, date le caratteristiche della regolamentazione, hanno la necessità di far crescere la raccolta di capitale di rischio ogni qualvolta che fanno crescere il credito, soprattutto se si indirizza verso impieghi relativamente rischiosi, come sono quelli a favore delle Pmi. Ma nell’attuale fase congiunturale la raccolta di capitale di rischio può essere particolarmente difficile, per cui l’incentivo a far credito si riduce ulteriormente. Inoltre, il cattivo andamento congiunturale peggiora la qualità del credito già erogato, con un ulteriore disincentivo ad erogare credito commerciale. L’Fmi ricorda che la caduta del credito (5%) continua nell’Unione dall’inizio della crisi. Va inoltre ricordato che lo stato anemico del credito viene accentuato dalla avversione degli operatori bancari esteri, esistenti o potenziali, a investire in mercati ad alta rischiosità, come quelli italiani, a causa di un rischio Paese legato alla bassa produttività oramai strutturale, alla bassa stabilità politico-istituzionale, alla alta inefficienza delle infrastrutture pubbliche, regolamentari e giudiziarie.
Ma in aggregato, se il credito non cresce, non cresce né l’attività economica e neanche i depositi. Per cui a una dinamica eccezionalmente espansiva della liquidità non corrisponde una corrispondente espansione né nel credito né nella raccolta. Di riflesso, a tassi sulla liquidità eccezionalmente bassi sulla liquidità non corrispondono tassi bassi sul credito: l’Fmi nota che i tassi creditizi nei Paesi periferici continuano a divergere da quelli chiesti nei Paesi centrali, con in aggiunta un aumento dei fenomeni di razionamento (credito richiesto e negato).
I vasi comunicanti tra liquidità, credito e raccolta si sono interrotti. Da qui almeno tre conseguenze. Finché i vasi non si riparano, è perfettamente inutile auspicare accentuazioni della portata e della frequenza delle operazioni di liquidità, o chiedere tassi di interesse pari a zero. Potrebbe essere anzi controproducente, se causasse ulteriori tensioni sui bilanci bancari e, di riflesso, sui tassi del credito alle Pmi. Per individuare dove e come i vasi sono rotti, occorre una regia centrale – la Bce – che coordini l’azione di ricognizione prima e di proposta poi delle autorità nazionali, banche centrali e autorità bancarie. Sul nostro territorio, l’azione di Banca d’Italia potrebbe essere particolarmente preziosa. Poi, per riparare i vasi, occorre riconoscere quali strumenti non convenzionali possano avere qualche efficacia, Paese per Paese, ricordando però sempre che gli interventi non convenzionali tendono ad avere potenziali benefici di breve periodo, ma incognite e rischi di distorsione che crescono quanto più tali interventi non sono temporanei.
La Bce ha già fatto un tentativo – virtuoso ma non decisivo – modificando i suoi criteri sulle garanzie che le banche possono utilizzare per il rifinanziamento. L’unico esperimento europeo – quello della Banca d’Inghilterra – di disegnare un sistema di incentivi per il credito alle Pmi, non ha granché funzionato, almeno finora. Infine, bisogna avere l’onestà di riconoscere i limiti attuali delle politiche monetarie e creditizie nell’Unione. In assenza di un disegno delle politiche fiscali e strutturali che sia sistematico e credibile, con la moneta si può solo comprare tempo, che i governi e l’Unione non devono continuare a sprecare.
aprile 19, 2013