L’economista: "Sono diventate stabilizzatori del capitale e fornitrici della patente di "privato"
Da lunga mano della politica a potere autonomo e autoreferenziale che la condiziona. Netta la critica dell’economista Franco Debenedetti che in Parlamento si era battuto affinché le Fondazioni uscissero definitivamente dal capitale delle banche, recidendo un cordone ombelicale «che risponde ad altre logiche, e non certo a quella di allargare l’area del non profit».
Non crede che in questi anni l’influenza delle Fondazioni sulle banche si sia attenuata?
«Niente affatto. Per molte delle grandi Fondazioni, le quote di partecipazione si sono ridotte con le aggregazioni: ma concorrono sempre al controllo delle banche. Essendo snodo cruciale di equilibri finanziari, il loro peso politico in alcuni casi è addirittura cresciuto. Essendo autoreferenziali, intendono giocare la partita in proprio».
Eppure in questi anni gli enti di emanazione bancaria hanno allargato di molto l’orizzonte d’intervento…
«E’ la parola giusta, allargato. A stabilizzatori, investitori che offrono garanzia che non cederanno le loro azioni a egiziani, o messicani, o spagnoli. O a fornitori della patente di “privato”, ad esempio nella Cassa depositi e prestiti, per consentire un trattamento in bilancio più favorevole ai parametri di Maastricht, o in F2i, il nuovo fondo infrastrutture, di cui la Cassa é primo azionista. Interventi con una precisa finalità politica, come è testimoniato dalle condizioni assai vantaggiose fatte per il favore prestato. Che però, vedi caso, non rientra negli scopi sociali indicati dagli statuti, e che è in contraddizione con la natura delle Fondazioni.»
Che cos’è allora?
«Il reddito dell’ingente patrimonio delle 87 Fondazioni (calcolato un anno in 41 miliardi) deve servire a finanziare le loro finalità sociali. E quindi il patrimonio va investito, in modo professionale, per massimizzare la redditività e per ridurre il rischio, dunque diversificando. Al patrimonio si potrebbe anche attingere, quando si trattasse di un progetto di eccezionale e duraturo valore per le popolazioni del “loro” territorio».
Invece?
«Invece se guardiamo ai dati non si possono che condividere le critiche espresse un anno fa da Roberto Perotti sul “Sole 24 Ore”, sia sul piano della qualità degli interventi, sia su quello dell’efficienza con cui vengono eseguiti: una beneficenza costosa. È mai possibile che le spese amministrative siano in media del 15% a fronte del 5% dei costi di gestione sostenuti da una Fondazione quale quella di Bill Gates? E che in ben 20 Fondazioni su 88 i costi gestionali superino addirittura il 50%? In alcuni casi, poi, questi enti sono meri strumenti di potere locale che erogano a pioggia e in modo clientelare i fondi. Ci sono anche esempi di iniziative importanti e di pregio, ma il giudizio, riferito all’insieme delle istituzioni, è negativo. Né la cosa deve sorprendere: infatti, a chi rispondono le Fondazioni?
A suo avviso come se ne esce?
Poteva essere l’occasione per l’applicazione su grande scala del principio di sussidiarietà: e invece lo si è immiserito in un ruolo di supplenza. Ma per questo ci sarebbe voluto un adeguato quadro legislativo, anzi un progetto sistemico per far fare un passo indietro allo Stato nell’erogazione di certi servizi: nell’istruzione, nella sanità, soprattutto nell’Università. Tra l’altro questo resta il solo modo per ridurre spese e pressione fiscale, senza tagliare le prestazioni. Invece, da un lato Fondazioni attente a enfatizzare il proprio peso politico e a preservare la propria autoreferenzialità, dall’altro uno Stato geloso delle proprie prerogative: un’occasione mancata.
ottobre 22, 2007