La televisione sposta il voto del 7-8% degli elettori, scrive Renato Mannheimer (Politica e TV, Corriere della Sera di lunedì); la notizia viene ripresa dal Giornale (L’Esperto: “Grazie alla RAI la sinistra aumenta i voti”, martedì 8 Febbraio); chissà quante volte la sentiremo citare, incominciando dal prossimo dibattito in Senato sulla par condicio. Avallata da un parere così autorevole, a forza di essere ripresa e ripetuta, rischia di diventare un “fatto”: come le cento parole che avrebbero gli esquimesi per indicare la neve.
Come i sondaggi dovrebbero essere sempre accompagnati dal metodo usato per raccoglierli, così questo – che è una specie di sondaggio dei sondaggi – andrebbe accompagnato dall’indicazione dei “modelli statistici” che Luca Ricolfi usa per dedurre, dalla “gran massa di dati”, il risultato che Mannheimer riporta. In mancanza di che nascono dei dubbi; e sui dubbi, proprio per la stima verso gli illustri studiosi, vien da riflettere.
Qui non stiamo parlando dell’effetto, facilmente misurabile, del messaggi televisivo sulla notorietà di un personaggio o di un partito. Stiamo parlando del comportamento dell’elettorato mobile (che è il solo che può essere “spostato”). E’ ovvio che l’elettorato mobile cambia il proprio orientamento in funzione delle informazioni che riceve: in base a che cosa d’altro dovrebbe farlo?
Il problema è misurare come la natura delle informazioni “sposta i consensi”: cioè confrontare i differenti effetti degli stessi fatti sulle stesse persone a seconda che le informazioni provengano solo da giornali o solo dalla televisione; oppure solo dall’ascolto del TG1 piuttosto che solo dal TG5; oppure, dato che anche la quantità ha il suo effetto, dall’ascolto di un solo telegiornale piuttosto che da cinque. Quanti Giorgi Bocca fanno un Emilio Fede? Mannheimer-Ricolfi affermano di riuscire a risolvere queste equazioni, addirittura con un’approssimazione di un punto su 8, il 12%!
Le stesse tecniche servono sia alla comunicazione politica che a quella commerciale, ma esse agiscono in modi radicalmente diversi, perché la scelta politica è infinitamente più complessa, basata su un numero di fattori enormemente più vasto, rispetto alla scelta di un prodotto. Era anche così quando pubblicità elettorale consisteva principalmente nella ripetizione ossessiva del messaggio estremamente sintetico dei manifesti (gli spot di allora).
Oggi che tanto maggiore è la quantità e la ricchezza del messaggio, ancora più difficile è separare l’effetto che sulla formazione del consenso politico hanno i fatti da quello che ha la rappresentazione dei fatti. Siamo tutti immersi in un universo di comunicazioni: come è possibile isolare l’influenza di ciascuna di esse, distinguere se a “spostare il consenso” è stata la chiacchiera di un amico, l’articolo di un giornale, una faccia simpatica, un’intervista noiosa? Paradossalmente: posto che la rappresentazione di un fatto è essa stessa un fatto, e che la comunicazione – fin dai tempi di Atene – è essenza della politica, che senso ha misurare l’effetto della politica sulla decisione politica? E alla fine, come in un gioco di frattali: quanti consensi sposterà la notizia che la TV sposta i consensi?
febbraio 10, 2000