Nella sua analisi del «riformismo qui in Italia», lei, caro Mieli, solleva due problemi connessi ma distinti. Il primo è l’ambiguità semantica per cui il riformismo sarebbe più «presunto» che vero (Francesco Damato), «più cosmetico che realmente innovativo» (Eugenio Scalfari). Io credo invece che non sia così. Sostiene poi che il riformismo è destinato a «prendere pochi voti» come dice Roberto Cassola. Anche qui non penso che sia così. Riforme aveva promesso l’Ulivo quando vinse nel `96 (e parecchie ne ha fatte nella sua breve stagione), riforme ha promesso la Cdl nei 2001 (e deve ancora dimostrare che qualcuna saprà realizzarla). E ci sono, nel centrosinistra, persone convinte che un programma riformista sia il solo con cui vincere alle elezioni.
Risponde Paolo Mieli
Caro Debenedetti,
conosco bene la sua, ai miei occhi affidabile, proposta riformista. La conosco per averla letta nel buon libro da lei curato, «Non basta dire no», testè pubblicato da Mondadori. Lì lei, caro senatore (assieme a Pietro Ichino, Tito Boeri, Giancarlo Lombardi, Bruno Manghi, Paolo Onofri Umberto Ranieri, Nicola Rossi, Michele Salvati, Ferdinando Targetti e Tiziano Treu), parla di un «operatore» — nel senso che la parola ha in matematica — che muti in flessibilità la rigidità del mercato del lavoro; che renda sostenibile la spesa pensionistica al variare della demografia; che introduca concorrenza nelle cosiddette professioni liberali; che dia alle famiglie una libertà di scelta in una scuola che sappia valutare e che accetti di essere valutata; e che dia ai cittadini una giustizia che li tuteli e ne garantisca i diritti. In un numero minore di parole, che dia agli italiani meno protezioni ma più prospettive. A gente come voi di «Non basta dire no», cortei, raduni e girotondi appaiono «non un bagno in cui rigenerarsi», bensì come manifestazioni di un «popolo ulivista» a cui «offrire una prospettiva per cui valga la pena di investire il proprio impegno». «Chi come noi pensa che “non basta dire no”», lei scrive, «è convinto di avere da offrire a quel popolo più di coloro che lo eccitano a pronunciare parole “più radicalmente di sinistra”. E chiede sono ancora sue parole, caro senatore Debenedetti — se possibile, rispetto».
Il condirettore dell’Unità, Antonio Padellaro, con rispetto, le ha replicato: «Forse è davvero questo lo spartiacque che divide oggi l’opposizione: la differenza tra chi sostiene che non basta dire no e chi risponde: giusto, ma intanto diciamolo forte questo no». E le ha ricordato, in positivo, il combinato disposto tra «no» ai conservatori e proposte concrete che ha caratterizzato negli Stati Uniti l’esperienza clintoniana. Ci sono, mi sembra, tra le righe di Padellaro due sottintesi: il primo è la velata accusa a voi riformisti dell’Ulivo di aprire fuoritempo un varco inopportuno nel fronte antiberlusconiano; il secondo l’imputazione nei vostri confronti di non essere capaci anzi di non provare neppure ad ampliarlo quel fronte. Cioè di non porvi se non a parole il problema di come venir fuori dalla maledizione indicata, con rammarico, da Roberto Cassola secondo il quale «riformista è l’etichetta che sta ad indicare una forza della sinistra che non è in grado di prendere voti».
Non li condivido quei sottintesi di Padellaro; però mi sembrano ragionevoli. Soprattutto il secondo.
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novembre 20, 2002