Intervista di Andrea Montanari a Franco Debenedetti
Per l’ex senatore e saggista l’ingresso dello Stato, tramite Cdp, in Autostrade, rete unica e forse Borsa non è positivo
Le reti e le infrastrutture di connessione, telefoniche o via web, sono considerate l’asse potante dell’economia di un Paese. Ma in Italia assistiamo a un’accelerazione di interventismo statale, ovviamente sempre a mezzo Cassa Depositi e Prestiti. Per la rete unica per la banda ultra larga è stata costituita una società tra Cdp e Tim i cui confluiranno la rete di Tim e Fastweb da un lato e quella di OpenFiber dall’altro. Un processo che richiederà molti mesi per diventare operativo. L’altro fronte è quello di Autostrade per l’Italia, da cui dovranno uscire i Benetton. E perfino Cornegliani, una media azienda di abbigliamento di lusso per uomo. Si parla di Cdp anche per la Borsa Italiana (vedere articolo a pagina 3) oggi di proprietà del London Stock Exchange che per motivi antitrust dovrà venderla. Sarebbe un paradosso se il luogo simbolo del mercato fosse nelle mani dell’ente simbolo della sua negazione. Dovremmo attrarre più aziende a quotarsi, a fare lo sforzo di affrontare il giudizio del mercato, e di farne fonte di f8nanziamento: ma se anche la Borsa diventa di Stato, il messaggio che si manda ad aziende e a investitori è che l’Italia è una economia socialista.
Insomma la Cdp come la Dea Kalì (così come è stata raffigurata sulla copertina del numero di MF-Milano Finanza in edicola). La Cassa, per il suo ad Fabrizio Palermo, è «una ricetta per un capitalismo paziente».
La frase ha provocato la risposta dell’ex senatore e saggista Franco Debenedetti: «Ma quale capitale?, ha cinguettato, «quello di Cdp è debito, raccolto con le cartelle postali: e i creditori, finché gli paghi le cedole, sono sempre pazienti». La questione su cui al momento si concentra la sua attenzione, come ha confermato in un colloquio con MF-Milano Finanza, è quello della rete unica in fibra ottica.
«Da anni e anni ci sono pressioni per una sua nazionalizzazione. Ma se si leva la rete a Tim, resta solo una serie di negozi: una società piccola, depotenziata, destinata ad essere vittima di qualche predatore: perderemmo una delle poche grandi aziende che ancora abbiamo. Per questo tutti quelli che si sono alternati ai vertici di Tim hanno dichiarato irrinunciabile mantenere il controllo della rete che lo Stato le ha venduto. In Germania, Francia, Olanda, Spagna, Inghilterra gli ex monopolisti statali hanno la rete integrata, e le autorità di controllo evitano favoritismi a discapito dei concorrenti: perché da noi dovrebbe essere diverso? In Italia il regolatore non è mai stato tenero con Tim».
L’accordo concluso prevede che il gruppo tlc abbia il 50,1% della società della rete e nomini l’ad di AccessCo, e che Cdp abbia la governance della strategia e nomini il presidente. Ma ci andranno molti mesi per definire il valore degli apporti, e per rodare il pratico funzionamento della struttura di governance. «E questo mi preoccupa, dice il saggista torinese, classe 1933, e usa una metafora sportiva: «È un po’ come nel sumo. I lottatori restano in stallo per lungo tempo ma alla fine quello più grosso vince». E nel caso in questione, è ovvio che quello che pesa di più è lo Stato». Ma quello che più lo preoccupa e la chiara e dichiarata deriva statalista, senza preoccupazioni per la rule of law. «I Benetton sono stati estromessi senza che neppure fosse iniziato il processo, l’unico che può dire se nel crollo c’è stata colpa di Aspi: a decidere è stata invece la sentenza del giudice del Tribunale del popolo, il ministro Danilo Toninelli», aggiunge Debenedetti.
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settembre 8, 2020