Debenedetti: «Ecco perché è possibile programmare riduzioni di imposte in più anni»

luglio 21, 2000


Pubblicato In: Giornali, Il Messaggero


Programmare ridu­zioni progressive di im­poste in più anni sarebbe, se­condo il ministro Visco («Meno tasse ma con rigo­re», Il Messaggero di ieri) una proposta «con valenza più propagandistica che reali­stica». Poiché mi riconosco tra gli «esponenti della mag­gioranza» favorevoli a tale proposta, vorrei spiegare le ragioni per cui respingo l’ac­cusa. Per farlo, vorrei prescindere dalla contingenza Dpef e partire invece da un fatto più generale: la spinta a ridurre le tasse non è più so­lo il terreno di caccia del po­pulismo, particolarmente bat­tuto in periodi pre-elettorali, ma è un fenomeno generaliz­zato, un’onda lunga che inve­ste tutti i paesi sviluppati. Lo è perché è conseguenza di cambiamenti strutturali nel rapporto tra cittadini e Stato.

Ha a che fare con la minore fiducia nell’efficacia di politiche redistributive; con la restituzione al merca­to di compiti prima affidati allo Stato; con una generaliz­zata richiesta di più spazio per scelte individuali; con la presenza di una componente finanziaria nel reddito di fa­sce sempre più ampie di po­polazioni. E’ anche una ne­cessità, posto che per i governi diventa sempre più diffici­le prelevare quote di reddito delle persone fisiche e giuridiche ora che persone e capi­tali sono diventati così mobi­li.

Il piano di Schroeder sem­bra interpretare questa ten­denza di lungo periodo, nel senso che segna una svolta netta rispetto alle tradiziona­li politiche delle socialdemo­crazie continentali, e si pro­pone di facilitare l’uscita dal modello proprietario del capitalismo renano. E’ per que­sta ragione, una ragione poli­tica, che esso ha suscitato tanto interesse e commenti quasi unanimemente positi­vi. Ed è per le stesse ma op­poste ragioni che la politica fiscale del governo, e il Dpef che la esprime, non ha riscos­so, il ministro Visco non avrà difficoltà a riconoscer­lo, analogo interesse.

Proprio le reazioni gover­native al piano Schroeder so­no illuminanti: prima si dice che non è necessario, dato che abbiamo già fatto lo stes­so se non di più, e poi che non è possibile, dato che a impedircelo sono i vincoli di bilancio.

In realtà il ministro Visco non dice né una cosa né l’al­tra. Dice «vedremo»: vedre­mo l’andamento della spesa corrente (che, ricordiamolo, continua a crescere più del Pil), e di quella per interessi, vedremo l’andamento del gettito; a consuntivo vi dirò quanto sarà il bonus fiscale; vi dirò quanto andrà alle im­prese e quanto ai cittadini, e quanto a quali categorie di cittadini. Un potere discre­zionale enorme, e fa spaven­to pensare gli effetti che po­trebbe avere in mani non af­fidabili.

Ma così il livello di prelie­vo fiscale diventa il saldo contabile di una serie di poli­tiche, sulle entrate e sulle spese. Invece per gli impren­ditori e le imprese esso è un elemento fondamentale per determinare le proprie strate­gie. Come può un governo chiedere alle imprese di inve­stire, agli individui di scom­mettere sul futuro, a tutti di fare piani a lungo termine, quando esso stesso restituirà con la mano sinistra ciò che intanto ha già preso con la destra? Quando ciò che pro­mette nel Dpef è una dimi­nuzione di pressione fiscale al 2003 di 2 punti scarsi del Pil, mentre invece la realtà contabile mostra che, ad ali­quote invariate, per effetto della crescita il gettito non potrà che aumentare?

Il declino di competitività del nostro Paese è stato di­mostrato al di là di ogni ra­gionevole dubbio: ma la com­petitività è la risultante di quelle decisioni di investire capitali, umani e finanziari. Considerare il livello del pre­lievo come il dato finale dell’equazione di bilancio, equi­vale ad accettare che la com­petitività sia quella che risul­terà come conseguenza di al­tri obbiettivi politici.

E’ ovvio che l’impegno a ridurre il prelievo può com­portare di dover agire sulle spese. Ma è dimostrato che porre la condizione prima di consuntivare i risparmi e poi concedere le riduzioni non ha mai portato da nessuna parte. E’ risaputo: solo un vincolo molto forte consente ai governi di far prevalere gli interessi collettivi sugli inte­ressi organizzati. Certo che questo è difficile, e che com­porta scelte difficili: richiede anch’esso rigore: è solo un al­tro tipo di rigore.

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