Programmare riduzioni progressive di imposte in più anni sarebbe, secondo il ministro Visco («Meno tasse ma con rigore», Il Messaggero di ieri) una proposta «con valenza più propagandistica che realistica». Poiché mi riconosco tra gli «esponenti della maggioranza» favorevoli a tale proposta, vorrei spiegare le ragioni per cui respingo l’accusa. Per farlo, vorrei prescindere dalla contingenza Dpef e partire invece da un fatto più generale: la spinta a ridurre le tasse non è più solo il terreno di caccia del populismo, particolarmente battuto in periodi pre-elettorali, ma è un fenomeno generalizzato, un’onda lunga che investe tutti i paesi sviluppati. Lo è perché è conseguenza di cambiamenti strutturali nel rapporto tra cittadini e Stato.
Ha a che fare con la minore fiducia nell’efficacia di politiche redistributive; con la restituzione al mercato di compiti prima affidati allo Stato; con una generalizzata richiesta di più spazio per scelte individuali; con la presenza di una componente finanziaria nel reddito di fasce sempre più ampie di popolazioni. E’ anche una necessità, posto che per i governi diventa sempre più difficile prelevare quote di reddito delle persone fisiche e giuridiche ora che persone e capitali sono diventati così mobili.
Il piano di Schroeder sembra interpretare questa tendenza di lungo periodo, nel senso che segna una svolta netta rispetto alle tradizionali politiche delle socialdemocrazie continentali, e si propone di facilitare l’uscita dal modello proprietario del capitalismo renano. E’ per questa ragione, una ragione politica, che esso ha suscitato tanto interesse e commenti quasi unanimemente positivi. Ed è per le stesse ma opposte ragioni che la politica fiscale del governo, e il Dpef che la esprime, non ha riscosso, il ministro Visco non avrà difficoltà a riconoscerlo, analogo interesse.
Proprio le reazioni governative al piano Schroeder sono illuminanti: prima si dice che non è necessario, dato che abbiamo già fatto lo stesso se non di più, e poi che non è possibile, dato che a impedircelo sono i vincoli di bilancio.
In realtà il ministro Visco non dice né una cosa né l’altra. Dice «vedremo»: vedremo l’andamento della spesa corrente (che, ricordiamolo, continua a crescere più del Pil), e di quella per interessi, vedremo l’andamento del gettito; a consuntivo vi dirò quanto sarà il bonus fiscale; vi dirò quanto andrà alle imprese e quanto ai cittadini, e quanto a quali categorie di cittadini. Un potere discrezionale enorme, e fa spavento pensare gli effetti che potrebbe avere in mani non affidabili.
Ma così il livello di prelievo fiscale diventa il saldo contabile di una serie di politiche, sulle entrate e sulle spese. Invece per gli imprenditori e le imprese esso è un elemento fondamentale per determinare le proprie strategie. Come può un governo chiedere alle imprese di investire, agli individui di scommettere sul futuro, a tutti di fare piani a lungo termine, quando esso stesso restituirà con la mano sinistra ciò che intanto ha già preso con la destra? Quando ciò che promette nel Dpef è una diminuzione di pressione fiscale al 2003 di 2 punti scarsi del Pil, mentre invece la realtà contabile mostra che, ad aliquote invariate, per effetto della crescita il gettito non potrà che aumentare?
Il declino di competitività del nostro Paese è stato dimostrato al di là di ogni ragionevole dubbio: ma la competitività è la risultante di quelle decisioni di investire capitali, umani e finanziari. Considerare il livello del prelievo come il dato finale dell’equazione di bilancio, equivale ad accettare che la competitività sia quella che risulterà come conseguenza di altri obbiettivi politici.
E’ ovvio che l’impegno a ridurre il prelievo può comportare di dover agire sulle spese. Ma è dimostrato che porre la condizione prima di consuntivare i risparmi e poi concedere le riduzioni non ha mai portato da nessuna parte. E’ risaputo: solo un vincolo molto forte consente ai governi di far prevalere gli interessi collettivi sugli interessi organizzati. Certo che questo è difficile, e che comporta scelte difficili: richiede anch’esso rigore: è solo un altro tipo di rigore.
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luglio 21, 2000