Intervista di Matteo Rigamonti
Intervista a Franco Debenedetti, che analizza il voto: «Bersani? Se l’obbiettivo è solo “smacchiare il giaguaro”, si fa la fine della “gioiosa macchina da guerra”».
«Il verdetto delle urne dimostra che se l’obbiettivo è solo “smacchiare il giaguaro”, si fa la fine della “gioiosa macchina da guerra”». Secondo Franco Debenedetti, a pesare nella disfatta del Pd è stata soprattutto la gestione un po’ “vecchio stile” del partito e delle primarie. Ma a fronte dell’affermazione decisa del Movimento 5 Stelle di Beppe Grillo, a uscire con le ossa rotte dalle urne sono stati anche Berlusconi («c’è un limite a quello che si può ottenere con gli strumenti della comunicazione») e soprattutto Monti, che difficilmente avrà «la possibilità di rientrare nei giochi». Il premier uscente, afferma Debenedetti a tempi.it, ha commesso anche un “peccato capitale”, per dirla con il linguaggio del suo ultimo libro (Il peccato del professor Monti, edito da Marsilio Editori): inseguendo a tutti i costi la sostenibilità dei conti pubblici ha coltivato il suo «pregiudizio negativo verso la vita politica».
Debenedetti, partiamo da un articolo che ha scritto ieri sul Foglio: perché è un disastro il risultato di queste elezioni?
Il verdetto delle urne dimostra che un partito socialdemocratico classico, blindato a sinistra e chiuso verso il centro, come quello costruito da Bersani, in Italia non conquista la maggioranza; dimostra che se l’obbiettivo è solo “smacchiare il giaguaro”, si fa la fine della “gioiosa macchina da guerra”; dimostra che le primarie, se le si distorce facendo votare solo i convinti, non conquista chi già convinto non lo è; dimostra che i mezzi a cui si può ricorrere per superare le emergenze non possono (e non devono) essere riproposti come il modo normale di gestire la politica; dimostra che c’è un limite a quello che si può ottenere con gli strumenti della comunicazione, anche quando li si sa usare con la maestria di Berlusconi, e che non si può continuare a promettere e a non mantenere. Ecco, se non si volesse trarre profitto da queste lezioni, allora sì, il risultato delle elezioni sarebbe un disastro completo.
Per D’Alema il Pd deve offrire la presidenza delle Camere al Pdl e a Grillo per formare una legislatura costituente in grado di aggredire il debito pubblico. Che ne pensa?
Il primo problema dell’Italia non è l’abbattimento del debito pubblico ma colmare il differenziale di competitività formatosi in un decennio in cui la nostra produttività è cresciuta meno di quella dei nostri partner o non è cresciuta affatto. La nomina del presidente delle Assemblee, specie della Camera dove il Pd ha una larga maggioranza grazie al premio del Porcellum, sarà un fatto carico di grande significato politico.
Monti è del tutto fuori dai giochi? Qual è stato il suo errore o, per dirla con il suo ultimo libro, il suo “peccato capitale”?
Non può più rientrare nei giochi. Ma anche se avesse scelto di non partecipare alla campagna elettorale il suo peccato rimarrebbe, cioè il suo pregiudizio negativo verso la vita politica come contrapposizione di visioni, visioni del rapporto dei cittadini tra loro e dei cittadini con lo Stato, e che siamo abituati a disporre sull’asse destra e sinistra. Che nel nostro paese ci siano tante riforme da fare lo sapevamo tutti, anche prima che venisse Monti. Le riforme scontentano sempre qualcuno, sennò le si sarebbe già fatte: perché vengano non solo approvate ma accettate, perché diventino parte del comportamento della gente, bisogna che entrino in un disegno politico complessivo, in una visione del futuro che gli elettori giudichino credibile.
Nel suo ultimo libro lei ha scritto: «Accettare i vincoli che pone la partecipazione all’Europa non serve a risolvere i problemi della società italiana. È vero il contrario, le riforme sono un presupposto all’accettazione consapevole di quei vincoli». Ma quali riforme?
Quella del mercato del lavoro, innanzitutto. E poi la scuola e l’istruzione. E in generale il normale funzionamento della pubblica amministrazione. Le racconto un aneddoto: in una grande città italiana c’è un liceo classico di grande prestigio e antica reputazione nel quale per un intero quadrimestre è sostanzialmente mancato il professore di matematica. Un fatto minore, ma che segnerà il futuro di molti ragazzi, si pensi solo ai test di ammissione alle università. Chi ne risponde? Il preside? Il provveditore agli studi? Quanti casi di malfunzionamenti analoghi avvengono ogni giorno? Va bene rinnovare la composizione del Parlamento, inserire persone giovani e nuove: ma governare è anche gestire il quotidiano funzionamento dell’amministrazione e richiede esperienza e professionalità.
Oltre a quello della crescita economica, uno dei temi più urgenti con cui dovrà misurarsi il prossimo esecutivo è quello della sostenibilità dei conti pubblici. Cosa ci ha insegnato l’epilogo dell’esperienza dei tecnici?
Sostenibilità per chi? Per quelli a cui dobbiamo chiedere di avere fiducia in noi e continuare a finanziarci? O per quelli che devono sopportare i piani di austerità necessari? L’esperienza con i tecnici ci insegna che in un momento di emergenza, se tutti ne prendono coscienza, l’austerità è possibile. Ma ci mostra anche che questo non basta. La sostenibilità è come galleggiare: necessario ma non sufficiente per nuotare e arrivare a riva e mettere i piedi sulla terra ferma.
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