Dare soldi, vedere cammello. L’Ue fruga le nostre tasche

marzo 18, 2014


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di Antonio Pilati

Entro marzo un comitato di 11 esperti, presieduto da Gertrude Trumpel-Gugerell e incaricato di studiare le modalità di attuazione dell’impegno di rientro ventennale sotto soglia assunto con il trattato fiscal compact dai Paesi che superano la quota del 60% nel rapporto debito/Pil, dovrà presentare al Presidente della Commissione Ue Barroso le sue proposte operative. Il comitato di esperti, dove non ci sono italiani, sta lavorando su una proposta, avanzata dal German Council of Economic Experts, che prevede di costituire un Redemption Fund dove confluiscono le porzioni di debito degli Eurostati che eccedono la soglia del 60%: il Fondo, in quanto dispone di una garanzia europea, potrà collocare titoli a tassi – è da ritenere – piuttosto bassi. Ritorna l’idea degli eurobond, lanciata da Tremonti e Juncker, poi ripresa e allargata da Prodi e Quadrio Curzio: in apparenza una buona notizia per chi, come l’Italia, sfiora il 133% nel rapporto debito/Pil e quindi potrebbe conferire al fondo europeo di redenzione una quota pari al 73%. In realtà l’idea degli esperti è a doppio taglio e la seconda lama fa molto male all’Italia: è infatti previsto che dal gettito fiscale degli Stati partecipanti si attui ogni anno un prelievo automatico pari a1/20 del debito apportato al Fondo. Nel progetto le risorse raccolte dal fisco nazionale passano in via diretta, tagliando fuori le autorità degli Stati debitori, alle casse del Fondo.

Si tratta di un passaggio cruciale e drammatico tanto nella sostanza quanto – e ancora di più – nella forma. Nella sostanza uno Stato come l’Italia, che da anni riesce a mantenersi entro la soglia di deficit del 3% solo a prezzo di enormi sforzi, dovrebbe ottenere di colpo un avanzo superiore al 3% o con un taglio (strutturale) di spese del 6% ovvero con una vendita di patrimonio pubblico stimabile intorno a un centinaio di miliardi l’anno (a parità di spese, tasse e Pil): tutte azioni difficili da immaginare realizzate (per di più in tempi brevi). Nella forma si verifica un trasferimento di potere che muta la figura statuale: l’esazione fiscale esce dai confini dello Stato, si rende extraterritoriale e passa a un’autorità svincolata da organi eletti. La cessione di sovranità non riguarda più, come già accaduto in passato, le politiche fiscali, la decisione sui livelli di tassazione o sul tipo di tributi e i luoghi della loro applicazione; tocca invece un punto costitutivo della sovranità, ovvero la potestà di prelevare dal patrimonio dei cittadini.
Può darsi, ed è augurabile, che una Commissione ormai a fine mandato non compia un passo così rilevante; tuttavia l’idea stessa di un esproprio selettivo di sovranità sul gettito fiscale e il credito politico-istituzionale che essa riceve indicano quale piega deteriorata ormai abbiano preso il rapporto fra gli Stati e insieme il concetto di integrazione che sta alla base del progetto di Unione. Il punto cruciale è che cade il principio della parità fra gli Stati partecipi dell’Eurozona: il prezzo per mettere in pratica uno strumento razionale e propulsivo – in una prospettiva di convergenza – quale la gestione integrata di un’ampia porzione di debito dell’eurozona diventa la discriminazione fra gli Stati, la cristallizzazione di un giudizio punitivo per chi ha difficoltà – storica, sociale, culturale – con il modello mercantilista dominante. Di fatto un aiuto forte alle economie con alto debito è pagato, sul piano della sovranità statuale, con un trasloco in serie B.
Da tempo l’Unione è divenuta teatro di scontro fra interessi nazionali rivali che hanno scordato l’ispirazione cooperativa degli esordi ed anzi sempre più spesso appare, con il suo apparato di istituzioni e procedure, un repertorio di mezzi contundenti alla portata dei più spregiudicati fra i governi – soft power di intensa efficacia; oggi però allo scontro fra rivali subentra una gerarchia consolidata che allinea statuti di sovranità differenziati in base al debito: quanto più alto è il debito tanto più basso è il grado. Il salto è evidente: il conflitto è mobile, soggetto a esiti cangianti, rovesciabile; una gerarchia stabile definisce un fatto compiuto sul lungo periodo, crea uno schema di rapporti politici e statuali (un equilibrio) che fa epoca. Il nuovo assetto gerarchico dell’Unione implica tre livelli diversi. Al vertice c’è uno Stato egemone che – per le circostanze storiche date dalla fine dell’Unione Sovietica e per i timori francesi di perdita definitiva della grandeur – è al contempo primo beneficiario di un impianto operativo (regole, procedure, obiettivi) per l’area monetaria comune scelto a sua misura (l’euro ha per modello funzionale il marco) e custode privilegiato dei principi ideologici che lo guidano. Il tratto distintivo dell’egemonia è la clausola, più volte affermata dalla Corte di Karlsruhe, che sottopone al vaglio dei principi costituzionali tedeschi l’evoluzione normativa dell’Unione (in particolare la sua rispondenza al principio democratico di sovranità popolare): ciò pone un’asimmetria di rapporto fra Stato nazionale e Unione (il primo predomina) che non esiste altrove (dove quasi sempre vale l’inverso). Il vantaggio strategico che danno asimmetria normativa e dominio del modello di funzionamento dell’euro è usato per vincolare in alleanze inevitabili e sbilanciate alcuni Stati cruciali (Francia) e per bloccare ogni tentativo di aggiustare il modello. Il secondo livello è costituito dagli Stati che hanno rapporti privilegiati, ancorché subordinati, con lo Stato egemone (Francia, Polonia, baltici) e da ciò traggono vantaggi politici in grado di pareggiare o limitare i danni di un impianto strutturale inadatto alle loro economie. Infine, al terzo livello ci sono gli Stati come la Grecia o come l’Italia che, causa debito stellare o renitenza a crescere (i due fenomeni hanno un nesso stretto) perdono o rischiano di perdere pezzi essenziali di sovranità.
Il modello dell’Unione, basato in origine su un’idea di convergenza cooperativa, si tramuta – dalla fine degli anni 90 e più fortemente dopo la crisi finanziaria del 2007-8 – in una gerarchia del debito che disciplina le rivalità statuali con un comando economico e normativo di rigidità semi-coloniale: più Napoleone che Schuman. Ma la rigidità della figura gerarchica, in una configurazione così composita come quella degli Stati europei, acuisce le tensioni, rende difficili e spesso insufficienti le correzioni del modello sulla base delle risultanze empiriche, aliena i popoli. La debolezza nel cuore economico dell’Europa ha riflessi di fragilità strategica sulla scena internazionale. Nei teatri di crisi arabi e mediorientali, cruciali per il bordo mediterraneo, è sfiorata l’irrilevanza. Il rapporto con la Russia, in cui si decide la reale proiezione strategica dell’Unione, precipita in un’ostilità nociva per il futuro del continente proprio nel momento in cui culmina il riavvicinamento fra Ortodossia e Chiesa di Roma. Il trattato di partnership commerciale fra Ue e Stati Uniti langue per il disagio americano di fronte alla complessità conflittuale dell’impianto di integrazione messo a punto nel Vecchio Continente. Anche i crescenti impulsi secessionisti, dalla Groenlandia ai Balcani, indicano che il malessere dell’euro catalizza spinte disgreganti di ogni tipo.
La disciplina gerarchica, con i compiti a casa che azzerano la crescita, toglie respiro strategico all’Europa, la minimizza nel mondo. Urge cambiare: occorre una visione politica che forgi nuove alleanze in un mondo che perde baricentro.

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