Si ritorna a sentire discorsi sui pericoli che il potere economico può rappresentare per il corretto funzionamento del potere politico. Si discute di grandi interessi: tanto per incominciare, se ne parla male. E per finire ci si fa del male: tutti.
Al Corriere della Sera si profila la possibilità che il Gruppo Agnelli diventi il primo azionista, e subito c’è chi paventa il rischio del sommarsi di potere economico e potere mediatico: poteri che invece preferirebbe che restassero o separati, soluzione editore puro, o dispersi, soluzione public company. Ma se noi abbiamo (avuto) il Secolo XIX e l’Ansaldo, La Stampa e la Fiat, il Giorno e Mattei, l’Espresso e Olivetti, Repubblica e la CIR, il Messaggero e Caltagirone, il Corriere e le banche, il Giornale e Berlusconi, il Sole24Ore e gli industriali italiani, dato che a confronto di quanto si guadagna(va) a fare auto, o a tirar su palazzine, o a commerciare gas, il profitto economico del stampar carta è risibile, bisognerebbe pure chiedersi il perché di così diffusa passione. Per attaccare o per difendersi? Ma in entrambi i casi, la colpa sarebbe della debolezza della politica. Sembra più logico pensare che quegli editori abbiano una loro visione dell’interesse generale, entro la quale i loro interessi economici svolgono un ruolo positivo; e che pensino che tale visione possa raccogliere consenso. Perché sta poi lì la prova del budino: un giornale o viene comperato e letto o non serve. Invece per i puristi c’è una intrinseca, inevitabile, insanabile contraddizione tra interesse economico proprio e interesse generale; chi è portatore del primo non può essere promotore del secondo. Non vale obbiettare che chi compera la Stampa sa che la Fiat fa auto, e chi compera il Messaggero che Caltagirone è un costruttore. Non serve far constatare che il risultato, in termini di libertà, pluralismo, qualità, non sembra davvero disprezzabile, non vale ricordare che i danni più tragici alle nostre democrazie sono stati proprio portati da personaggi che non erano mossi da interessi economici. La diffidenza verso gli interessi economici è ideologica, non logica. Anzi, a ben veder, è illogica: in fondo, prima che Cairo comprasse La7, l’unico editore puro in Italia era Berlusconi.
Gli interessi sono i protagonisti della partita che si sta giocando al Senato, dove il conflitto interno alla sinistra tra chi non sopporta la coabitazione in questa maggioranza, chi vuole nuove elezioni, chi un altro governo, chi un altro segretario, si gioca sui modi con cui regolare i conti con Berlusconi decretandone l’espulsione prima che l’arbitro fischi la fine della partita. Succede che, per contrastare i “talebani” dell’incandidabilità e dell’ineleggibilità, i “moderati” abbiano controproposto l’incompatibilità. E, forse perchè non sia ad personam, la vogliono erga omnes: a tutte le persone elette, che siano azionisti di controllo di società quotate “si offre” di restare parlamentare a condizione di dare mandato irrevocabile a vendere le proprie partecipazioni azionarie. Nel mondo è largamente diffuso l’obbligo fatto a tutti gli eletti di dichiarare il proprio patrimonio, in molti paesi a chi ha incarichi governativi si impone di porre i propri averi in un blind trust; ma credo che in nessun Paese si imponga di scegliere tra il diritto all’elettorato passivo (che è uno dei diritti fondamentali del cittadino) e l’esproprio (a cui per a nostra giurisprudenza equivale l’obbligo a vendere).
Ma la questione non è giuridica, è politica, e come tale molto più grave: per legge viene sancito che chi controlla una società quotata rappresenta un pericolo per il corretto funzionamento degli organi democratici. Gli interessi degli imprenditori, ancorché trasparenti (e il controllo di società quotate già lo é), ancorché per legge obbligati a fare l’interesse di tutti gli azionisti, sono sospetti di andare contro l’interesse collettivo. Abbiamo un disperato bisogno di crescere, chiediamo agli imprenditori di avere coraggio, ma purché i loro interessi li lascino fuori dalla porta. Gli chiediamo di avere fiducia nel Paese, ma gli diciamo che il Paese diffida di loro. Chiediamo loro di superare i limiti del familismo aziendale, di accettare soci e revisori, di sottoporsi alle regole, di entrare in Borsa: ma non in Parlamento. C’è da restare esterrefatti nel constatare il danno che l’antiberlusconismo continua a fare alla sinistra.
Io non credo che quella legge passerà: ma il danno che la sola proposta ha fatto non può essere sottovalutato. Chi è veramente imprenditore è come il soldato di Napoleone, ha il bastone di maresciallo nello zaino: il messaggio che gli mandiamo è deleterio. Chi è portatore di questo bagaglio ideologico domani potrebbe governare il Paese: il giudizio di chi da fuori guarda a giudica le nostre cose non può che essere negativo.
E poi protestiamo perché ci abbassano il rating. E poi ci chiediamo sconsolati perché ci comprano anche i bar.
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Massimo Mucchetti
11 annoe fa
L’intervento di Debenedetti sul Foglio di ieri merita un paio di precisazioni. La prima. Non si tratta di mettere un astratto potere economico alla guida dei giornali, ma di ricordarsi che l’acquisizione del controllo dei grandi quotidiani da parte di grandi gruppi industriali avvenne negli anni Venti sulla spinta del fascismo. La Fiat alla Stampa è entrata in orbace. Prima c’erano i Frassati. In seguito la stampa è stata il giornale di Bobbio.
Ma la storia della proprietà non va mai dimenticata.
L’ingresso delle banche nell’editoria è stato consentito dal Testo unico bancario solo a partire dal 1993. E oggi il Fondo monetario internazionale prescrive la loro fuoriuscita dai giornali greci. Franco adora il modello anglosassone. Eppure, negli Usa, nel Regno Unito e pure, in altro modo, in Germania, esistono ancora e non stanno poi così male gli editori puri organizzati in società a controllo famigliare o a proprietà diffusa. E’ così terribile augurarsi l’insorgenza di qualche giornale un po’ meno impuro? E magari operare a questo scopo nel pieno rispetto del diritto e fermo restando che la libertà di informazione passa anche e soprattutto attraverso il pluralismo delle testate di qualsiasi proprietà siano. O dalla perfida Albione vogliamo imparare soltanto la cura degli hedge fund? Seconda precisazione. Il ddl dei cosiddetti moderati del Pd (nei fatti la grande maggioranza) sulle incompatibilità d’affari, che ha riscosso l’approvazione di costituzionalisti come Capotosti e Cheli, non riguarda gli azionisti delle società quotate in genere, ma delle società quotate e non quotate titolari di concessioni o licenze d’uso pubbliche ovvero di società operanti in settori sottoposti a regolazione specifica. Ma forse al mio amico Franco, che evidentemente non ha letto né il ddl né i resoconti più accurati, la questione del conflitto di interessi non interessa più.
Nemmeno in vista della trasformazione in senso semi presidenziale della Repubblica.
Franco Debenedetti
11 annoe fa
Ci sono quelli per cui gli interessi sono un pericolo, e quelli che li considerano una risorsa. Io non solo sto con i secondi, ma diffido dei primi, perché fingono di non sapere, che gli interessi nascosti dalle bandiere delle ideologie o nascosti nelle pieghe della psicologia sono il pericolo, e non quelli dichiarati e palesi. Ci sono quelli per cui il bene pubblico si protegge con concessioni, salvo limitare i diritti civili dei concessionari, e quelli che, con l’Amato dell’Antitrust, le concessioni vogliono abolirle tutte. Ci sono quelli a cui fa comodo non privarsi dell’arma del conflitto di interessi, e quelli che ritengono la politica capace di controllarli. Ci sono quelli che difendono la costituzione più bella del mondo, e quelli non del tutto soddisfatti dei risultati che ha dato. Ci sono quelli che non mettono al primo posto raccogliere l’interesse di quanti vorrebbero che questo Paese ce la facesse: e ci sono quelli che pensano che la sinistra possa farlo. E quelli che l’hanno pensato.