La coerenza nelle decisioni, in politica, non è necessariamente un valore per i leader. Ma lo è per le istituzioni, soprattutto quelle che ancora si stanno faticosamente costruendo. E’ bastato che Margrethe Vestager, commissaria alla concorrenza, annunciasse che avrebbe esaminato le operazioni Fincantieri-Stx e quella FCA-PSA, perché si aprisse la polemica già vista quando, a inizio anno, aveva “bocciato” la fusione ”ferroviaria” tra Siemens e Alstom. Tutte le operazioni di fusione, per il semplice fatto di essere di importi superiori a una determinata soglia, devono obbligatoriamente ottenere l’approvazione della Commissione; e i comunicati di FCA-PSA doverosamente lo ricordano.
Allora, Siemens e Alstom non avevano dato alcuna indicazione sul perché fosse necessario procedere a un merger per fare maggiore ricerca e innovazione; finire per avere un unico fornitore potrebbe eliminare una ragione per introdurre un po’ più di concorrenza nel mercato ferroviario: la decisione della commissione aveva dunque delle ragioni dalla sua parte. Oggi, Fincantieri è un caso a parte, perché il consumatore compera crociere, non navi, ma sul mercato dello dell’auto tanta è la concorrenza che la scelta di acquisto è un rompicapo, mentre per i costruttori il problema è sopravvivere in un mondo in cui una mezza dozzina di competitor globali affrontano la più grande e costosa rivoluzione tecnologica da sempre. Chiaro come il sole, porre ostacoli all’operazione sarebbe, anche al profano, incomprensibile.
Allora, di fronte a una decisione della Commissione certamente non sprovvista di fondamento, il Ministro delle Finanze francese Bruno Le Maire avanzò la proposta di dare al Consiglio Europeo il potere discrezionale di disattendere le decisioni della Commissione; proposta ripresa 15 giorni dopo nel Manifesto franco-tedesco per una politica industriale europea adatta al 21esimo secolo, volta a “modificare le regole della concorrenza per consentire alle imprese europee di competere su scala mondiale”. Oggi, a fronte di procedimenti neppure avviati e dall’esito con ogni probabilità opposto, la musica è sempre la stessa: creare “campioni europei”: europeo il mercato protetto dalla concorrenza, europei, se del caso, gli aiuti. Chiaro che a qualcuno possa piacere.
Tuttavia gioverebbe ricordare che la Germania è campione mondiale di esportazioni non perché lo Stato abbia protetto le aziende tedesche, ma perché le ha esposte alla concorrenza internazionale. Lo stesso dicasi con le nostre “multinazionali tascabili” che hanno finora tenuto in piedi il nostro Paese. Se fosse vero che il pericolo consiste nel risultare perdenti in una guerra tra grandi potenze continentali, bisognerebbe favorire le operazioni infra-europee. E invece si considerano le medie imprese acquisite dall’estero più una «perdita delle radici» che «nuova linfa al Made in Italy»; si accusano i nostri capitalisti di esporsi alle scorrerie dei fondi di private equity alla rincorsa della massimizzazione della shareholder value; si considera una sconfitta nazionale che Luxottica, dopo l’unione con Essilor, si quoti alla Borsa di Parigi, e che FCA non è più italiana se porta la sede legale in Lussemburgo.
Questo nell’economia degli atomi. In quella dei bit invece, c’è sostanziale accordo tra governi e commissione. Francia e Germania vorrebbero un campione europeo, una infrastruttura alternativa ai servizi cloud di Microsoft, Amazon o Google, in cui custodire in sicurezza i dati prodotti in Europa. Per aumentare la concorrenza? Per internalizzare i dati prodotti dalle pubbliche amministrazioni? Ma se vorranno “consigliare” le aziende europee a servirserne, magari in nome della sicurezza dei loro dati, la commissaria Vestager la multerà per abuso di posizione dominante? La quale Margrethe Vestager da parte sua pensa a una nuova mossa contro i “campioni mondiali”, le grandi aziende di internet. Se accusate di comportamenti anti competitivi dovranno essere loro a provare che realizzano vantaggi per i consumatori, non l’autorità a dimostrare che recano danno. Con tanti saluti alla più basilare civiltà giuridica: la prova richiesta diventa diabolica quando è il giudice stesso stabilire che cosa è vantaggio e che cosa danno. Il miliardo e mezzo di persone che mettono su internet i propri dati, pensieri, attività, soddisfano il loro desiderio di essere connessi, oppure ignorano che a Bruxelles qualcuno pensa che fanno male, a sé e ad altri? Internet sta “disintermediando”, oltre che interi settori industriali – le banche, l’editoria, gli spettacoli – anche i partiti e la politica: il “Principe digitale” dipenderà dal sovrano di Bruxelles per la propria investitura?
Noi guardiamo con un certo complesso di superiorità “culturale”, ma anche con invidia i giganti della Silicon Valley: ma è stato l’incontro tra la cultura dei geek e la controcultura libertaria californiana degli anni 80 a creare lo spazio partecipativo in cui tutti sono connessi, si formano comunità, avanza la democrazia e sono nati i Big Tech. È per ragioni culturali che da noi non ci sono, e non ci saranno: e quindi, non potendo essere noi a spezzarle, ci consoliamo se la Vestager le multa, se gli Stati le tassano, e se la Ue, cercando di riportarle nei propri canoni, gli rende la vita un po’ più difficile.
Ci sono principi che consideravamo consustanziali all’idea stessa di unione europea, come fare dell’Europa uno spazio economico aperto alla concorrenza, avendo il beneficio per il consumatore come metro di giudizio. Che si tratti di mercati tradizionali o digitali, che sia per reazioni dei governi o per iniziative della commissione, sembra che non sia più così. Adesso Margrethe Vestager dovrebbe essere promossa a vice-presidente della Commissione con l’incarico della politica digitale; presidente dovrebbe essere Ursula von der Leyen, che ha dichiarato di voler fare dell’Europa una regulatory superpower. C’è da pensare che si intenderanno bene: tra di loro.
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