Quanta retorica si fa sulle riforme usate dai partiti per esser legittimati
di Giorgio Rebuffa
Ora che è passato un mesetto, lo possiamo dire apertamente: la vittoria del no al referendum costituzionale non ha solo bocciato un brutto testo, ma ha chiuso la fase delle ciance costituzionali. E ha chiuso anche la fase delle opposte retoriche del tipo «la Costituzione non si tocca!» o, il suo opposto, «la riforma della Costituzione ci salverà!». Naturalmente non è sicuro che andrà così, ma è una speranza molto viva: non vogliamo arrenderci all’idea che le dinamiche costituzionali finiscano come le partite di calcio, preda di cronisti assatanati a raccontare le gesta dei nostri gladiatori o come le vite delle belle attrici, vittime di gossippari truculenti. Speriamo che sulle riforme cada un bel silenzio rispettoso. Poi chissà, un giorno.
La storia delle riforme negli ultimi anni è, infatti, una storia di retoriche, i cui modestissimi risultati sono davanti agli occhi tutti. Lunghi dibattiti, discorsi sui modelli, commissioni parlamentari, bozze e articolati hanno prodotto pochissimo; anzi, a conti fatti nulla. Dopo il fallimento della Bicamerale venne inventato il contentino del «giusto processo», riscrivendo l’articolo 111 e riformulando sacri principi in un testo sei o sette volte più lungo di prima.
Poi il centrosinistra, in fine legislatura, sognò di gloriarsi del titolo di riformatore, riscrivendo tutto il titolo quinto della Costituzione. I risultati furono paradossali: un grande contenzioso, molti pezzi della riforma lasciati dormienti, molte formule troppo vaghe. In quel caso, ad esser sinceri, vi fu poca serietà. Non fu serio, infatti, riformare per acchiappare voti, non fu serio riscrivere la Costituzione per dire che si era fatto un federalismo purchessia, non fu serio pensare di recuperare voti nel nord con una politica delle parole. Questa mancanza di serietà era il difetto più grave del centrosinistra di allora e, come già nella Bicamerale, le riforme servivano a prender tempo.
Venne poi il paradosso più grande, quando il centrodestra, dotato di un’imponente maggioranza, proclamò che bisognava «riformare la riforma». Avrebbe anche potuto farlo. Sennonché la maggioranza del 2001 pensò che, oltre a rifare il titolo quinto per attuare «un vero federalismo», avrebbe provveduto anche all’ampliamento dei poteri del governo, e alla modifica del bicameralismo perfetto. Fu il disastro. Da un lato, perché neanche il centrodestra sapeva bene quali fossero le riforme che voleva. Dall’altro lato, perché si mise in piedi un mosaico senza ordine, affastellando i desiderata delle varie parti dell’alleanza: un esecutivo forte per An, la devoluzione per la Lega, chissà che per Forza Italia e i centristi.
Si arrivò così a Lorenzago, quando tutti sapevano che le riforme non servivano più a riformare nulla, ma più modestamente – o ambiziosamente – a mantenere insieme una coalizione che non ne aveva più alcuna voglia. Poi venne la campagna per il referendum, durante la quale si segnalarono altre retoriche: «vinciamo il referendum sulla Costituzione per rifare le elezioni perse»; o il suo contrario: «rivinciamo le elezioni vinte». La Costituzione stava sullo sfondo. Alla fine siamo andati a votare, in maggioranza scegliendo no e la ragione vera di questo bel voto è che i pedagoghi e la retorica ci avevano stufati.
Da questa lunga storia si possono trarre due conclusioni. La prima è, per così dire, storiografica. Se nella fase della grande crisi della repubblica, dal 1989 al 1994-96, l’idea di una riforma della Costituzione si giustificava come strumento per stabilizzare il sistema politico e dargli nuova legittimazione, a poco a poco l’idea della riforma divenne uno strumento retorico, un modo per eludere i problemi politici, che erano (e in parte sono ancor oggi), per entrambi gli schieramenti, quelli dell’identità e della leadership.
D’Alema e Berlusconi, uno dopo l’altro, cercarono di «fare le riforme» perché erano il terreno più facile su cui avere il primato nel proprio schieramento e per riuscire a trasformare alleanze incerte in soggetti politici.
La seconda è una conclusione pratica. Sulle riforme si è accumulata una retorica tale, che parlarne ancora rischia di essere una trappola. Trappola, naturalmente, non per gli accademici che fanno bene a parlare di riforme, modelli, ipotesi e via discorrendo. Ma per la politica italiana, in cui due schieramenti friabili e senza identità si inseguono cambiando faccia ad ogni mezza elezione.
Il senatore Franco Debenedetti oggi rilancia: riformiamo – dice – la prima parte della Costituzione quella da sempre e da tutti considerata intangibile perché portatrice di valori. È un’ottima idea, quella di parlare della prima parte, non perché sia davvero pensabile qualcosa come una Bicamerale per rivedere i valori, ma perché una discussione diretta porterebbe le forze politiche a dirci cosa sono, a scegliere tra grandi opzioni, quelle in cui si collocano tutti i partiti europei, per dirne una. Forse una discussione sulla prima parte della Costituzione ci porterebbe fuori dall’atmosfera incantata in cui viviamo dal 1989, ci renderebbe consapevoli che gli imperi che ci avevano dato i recinti, i simboli e le sicurezze non ci sono più. E che se le forze politiche italiane vogliono una nuova legittimazione non la troveranno certo nella retorica delle riforme.
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