Così non si privatizza, si svendono le aziende

dicembre 6, 1995


Pubblicato In: Giornali, La Stampa


«Si, ma…» potrebbe essere il motto della via italiana alle liberalizzazioni. «L’Italia ha già fatto abbastanza» ha replicato Sante Perticaro, presidente della commissione Trasporti e Telecomunicazioni della Camera, ai rilievi mossi da Bruxelles: come se liberalizzare fosse una tassa, da pagare a rate ed il più tardi possibile, anziché una misura che fa risparmiare’ ai consumatori e dà stimoli all’economia.

La politica del «sì, ma…» ha dei costi, anche in termini di capitale. Prendiamo la vendita dell’Eni: il Tesoro ha deciso di incominciare a venderne il 20 per cento. E’ vero, finalmente si è posto mano alla vendita delle grandi aziende di Stato: ma in presenza di golden share e di clausole che, per un tempo lungo e comunque non certo, limitano la possibilità di scalate, quella di diventare soci di minoranza dello Stato non è una prospettiva particolarmente interessante per un investitore.
La politica del «sì, ma…» imporrà i suo costi anche sulla vendita dell’Enel. Qui l’incertezza è tra il piano Clò che mantiene il potere di monopolio dell’azienda, e l’authority che dovrebbe introdurre nel tempo una certa concorrenza. Con il che né i consumatori godranno i benefici della liberalizzazione possibile, né il Tesoro spunterà i massimi prezzi.
L’investitore non si aspetta né crescita dei dividendi da aumento di efficienza, perché teme vincoli sindacali o societari, né capital gain perché le società non saranno praticamente scalabili; aggiunge un ulteriore sconto per l’incertezza su obiettivi e credibilità del processo di privatizzazione. Risultato: un minor gettito per il Tesoro, una perdita secca per tutti:
Altro caso: la Cariplo. Pressata dalle richieste di privatizzare la sua banca, la fondazione considera anche l’opzione di cedere un 20% ad un «partner strategico». E poi? Venderà altre quote? A chi? Manterrà il controllo? Fino a quando? Si cerca un partner strategico, ma per quali strategie? Nell’incertezza su un piano chiaro e credibile, i candidati faranno le loro offerte scontando la prospettiva di restare socio passivo, di un’azienda che altri continueranno a gestire secondo i propri criteri, per un tempo indefinito: e la fondazione avrà, questa volta sì, svenduto una parte del proprio patrimonio. A dimostrazione che, richiedendo alle fondazioni l’esplicita decisione di vendere il controllo delle banche in tempi definiti, si fa proprio l’interesse delle fondazioni.
Almeno, nel caso delle aziende di Stato, le decisioni sono prese dal governo, che risponde, tramite il Parlamento, agli elettori. Nel caso delle fondazioni invece qual è la precisa linea di responsabilità tra i membri dei «comitati di beneficenza» e la collettività?
Si finisce dunque per pagare un prezzo senza avere i benefici, in termini di efficienza per tutti, della liberalizzazione. Quando è per incertezze ed esitazioni, è un peccato. Quando è per man-tenere il potere, è una colpa.

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