di Carlo Stagnaro
Tra beni immobiliari e società controllate, gran parte del patrimonio pubblico è di regioni e comuni. Tremonti li incalzi
Il programma con cui il Pdl ha vinto le elezioni prevede la “liberalizzazione dei servizi privati e pubblici” e la “liquidazione delle società pubbliche non essenziali”. Le due cose vanno assieme, o non vanno: la privatizzazione di un monopolio è il mero trasferimento di una rendita, la liberalizzazione in presenza di colossi pubblici è fatalmente monca. In più, la cessione di beni mobiliari e immobiliari può sia fornire risorse al governo, sia rivitalizzare il mercato. Ma quali sono gli asset alienabili?
Nei giorni scorsi si è molto discusso sul patrimonio edilizio pubblico, con valutazioni oscillanti. La maggior parte di questi beni, però, appartiene agli enti territoriali, non al governo. Lo stesso vale per il portafoglio azionario. Il Tesoro (da solo o assieme alla Cassa depositi e prestiti) possiede quote dei principali gruppi industriali del paese: circa un terzo di Enel, Eni, Terna e Finmeccanica (alle quotazioni attuali, attorno ai 40 miliardi di euro). Nel caso specifico di Eni, secondo il fondo Knight-Vinke, una riorganizzazione potrebbe far emergere 50 miliardi di valore “nascosto”. Via XX Settembre controlla poi una serie di società non quotate, per le quali è difficile stimare il gettito di un’eventuale quotazione in Borsa: le principali sono Fintecna (che dalla quotazione del 49 per cento della controllata Fincantieri vorrebbe ottenere 500 milioni), Ferrovie dello stato (difficilmente valutabile) e Poste italiane.
Quest’ultima, con un Ebitda stimato nell’ordine di 1,5 miliardi nel 2010 e un multiplo pari a 5 (leggermente inferiore a quello di Deutsche Post) potrebbe fruttare 6-7 miliardi.
Per quel che riguarda la Rai, l’associazione Libertiamo stima 3-4 miliardi di euro: inclusivi, tra l’altro, del dividendo “politico” di un gesto distensivo verso i finiani che spingono per la privatizzazione. Infine, può essere ceduto un rilevante pacchetto di infrastrutture: dalle concessioni autostradali di Anas e degli enti locali a porti e aeroporti. Anche per quel che riguarda le società partecipate, però, il grosso si nasconde nei forzieri di regioni, province e soprattutto comuni. Le maggiori municipalizzate sono quotate in borsa: il 55 per cento di A2A, diviso tra Milano e Brescia, vale quasi 2 miliardi di euro, il 51 per cento di Acea in pancia al comune di Roma sfiora il miliardo, il 51 per cento di Iren – diviso tra Genova, Torino, Parma e Reggio Emilia – 750 milioni. Ma, ancora, questo è solo un assaggio rispetto a una galassia di imprese, gran parte delle quali non quotate, che, secondo l’indagine della Fondazione Mattei, occupa 240 mila addetti, totalizza 43 miliardi di ricavi e produce l’1,3 per cento del valore aggiunto a livello nazionale. Il problema sorge dal fatto che sia gli asset immobiliari, sia le partecipazioni azionarie degli enti locali non sono disponibili al ministero dell’Economia. Tuttavia, il governo potrebbe muoversi in base al principio per cui l’intervento pubblico non solo non è necessario, ma è spesso dannoso: restringe la competizione, spiazza gli investimenti privati (“crowding out”), e consolida le rendite. Si potrebbe dunque introdurre un meccanismo per ridurre i trasferimenti a piè di lista agli enti che mantengono una presenza, diretta o indiretta, nei settori aperti alla concorrenza, compreso il mercato immobiliare. In questo modo, si costringerebbero i comuni a vendere (risanando automaticamente il loro bilancio e liberando risorse al livello centrale), oppure si realizzerebbe un risparmio sotto forma di minori trasferimenti. Di certo, vendere gli asset pubblici aiuterebbe a risolvere molti problemi. Se però il ministro dell’Economia, Giulio Tremonti, proprio non vuole vendere, almeno non compri. Le vicende di Mediocredito centrale e della Banca del sud sono in questo senso il sintomo preoccupante di uno stato che, anziché arretrare, si fa più aggressivo e impiccione.
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