Istituto Bruno Leoni
Il decennio 1990 -2000 è il periodo d’oro dell’apertura dei mercati in Italia: dal colpo di piccone alla foresta pietrificata di Amato Ministro del Tesoro prima e Presidente del Consiglio dopo, alla trasformazione degli enti in società per azioni, agli accordi Andreatta- van Miert, alle privatizzazioni del primo governo Prodi.
Per questo, invitato a fare un’introduzione ad un libro sull’Antitrust, ho voluto rievocare quello che per molti di noi è stata una stagione di grandi entusiasmi, di non piccole conquiste e di qualche ingenuità; approfittandone per sottrarre all’oblio alcuni dettagli.
Che ruolo ha giocato l’autorità Antitrust in quel decennio d’oro? Non è stato da Presidente dell’Autorità che Amato ha tirato le sue picconate al sistema delle banche pubbliche e alle Fondazioni bancarie. Sono stati atti di Ministri, Andreatta primo tra tutti, e poi ancora Amato, a intaccare e parzialmente smantellare il potere monopolistico delle aziende di Stato. Il monopolio è sempre “di Stato”, in quanto si forma grazie alla protezione dello Stato: se la protezione è addirittura riserva di legge, il monopolio è perfetto. Il mercato unico è figlio di un’ispirazione liberista: ma con ipocrito realismo i Governi hanno dato alla Commissione Europea criteri che non discriminano in base alla proprietà, non riconoscono la distorsione indotta in un mercato dal semplice fatto che uno dei concorrenti ha poteri illimitati, ivi compreso quello di cambiare le regole. La cultura antimonopolistica ha trovato il modo di piantare un cuneo in quella faglia: quella del divieto di aiuti di stato, della libertà di movimento di capitali all’interno dell’Unione. In Italia, durante la breve stagione della privatizzazione delle aziende pubbliche, la faglia fu anche l’eterna “donna dello schermo” della nostra politica, il vincolo di bilancio, gli obbiettivi di Maastricht: le privatizzazione furono accettate in quanto mezzo per fare cassa, ma non volute per restituire al mercato aree di business sottratte all’iniziativa privata. Poteva anche andare peggio: basta pensare ai progetti alla Guarino che circolavano allora e che ancora periodicamente vengono riproposti. Va dato merito ai politici che ce li hanno risparmiati.
Qual è stato in quegli anni il merito della nostra Autorità Antitrust? Grazie a personaggi come Francesco Saja, Franco Romani, Giuliano Amato, Luciano Cafagna, ha rappresentato un’ansia di modernizzazione. In quella congiunzione astrale, l’Antitrust, strumento creato per “correggere” i verdetti del mercato, dunque fondamentalmente contro il mercato, si è trovato ad essere lo strumento adatto per costruire il mercato dove non c’era, sulle spoglie dell’imprenditoria pubblica. Non potendo esserci in Italia un “ministero delle privatizzazioni” l’Antitrust è stato un “pulpito” da cui diffondere la cultura, la “retorica” del mercato e della concorrenza.
E quanto ce ne sia ancora bisogno, lo constatiamo a volte la domenica nella pagina dei commenti del Corriere della Sera, o al lunedì nell’inserto di Repubblica.
E dato che aggregare consenso è un ruolo politico, questo è ciò che l’Antitrust ha svolto in quegli anni. A proposito mi ritorna in mente un episodio. Avevo mandato a Giuliano Amato un biglietto di rallegramenti per la sua nomina ed egli ne aveva colto il tono “non convenzionale”. Quando andai a incontrarlo, era la prima volta, nella vecchia sede, a un certo punto, non ricordo più a che proposito, uscì con questa esclamazione: “Franco, io sapevo fare politica”. Quella frase allora l’interpretai riferita agli eventi degli anni immediatamente precedenti: oggi la arricchisco di un senso più ampio, quello del rapporto tra l’Autorità Garante e la politica.
Quali sono i poteri reali dell’Antitrust? C’è voluta una crisi politica di prima grandezza per porre fine al metodo del “piano regolatore” nel sistema bancario, per la sostituzione di Fazio alla Banca d’Italia, la legge sul risparmio, l’attribuzione all’Autorità garante di compiti antitrust anche sul settore bancario. Un risultato dovuto interamente all’uso a dir poco spregiudicato delle intercettazioni da parte della magistratura. Un “ti bacerei in fronte”, un “ abbiamo una banca” sono riusciti là dove inutilmente avevano discettato convegni sulla regolazione per funzioni anziché per soggetti.
In Italia si scrive Antitrust e politica e si legge Mediaset e Berlusconi. Come dice Antonio Pilati, il mercato è “selvatico” , disordinato e cattivo: ma produce risultati. Mediaset abbatte il monopolio pubblico, come Bill Gates crea una piattaforma di SW a basso costo. Ma Mediaset venditore di pubblicità è la Standard Oil, è Alcoa, è IBM, è Microsoft, è, per stare al tema di oggi, il “cartello” delle assicurazioni. Ha seguito quindi un solco ben tracciato l’Antitrust approvando la relazione in cui si certifica la posizione dominante di Mediaset nella pubblicità televisiva. Anche se il timing, il giorno prima che scadesse il mandato del relatore Michele Grillo, non è stato dei più eleganti.
La politica populista “cattura” termini e i concetti che l’antitrust ha reso popolari. Termini quali “antitrust televisivo” , “posizione dominante” sono diventati di (ab)uso corrente, e la necessità di provvedervi è diventata evidente senza bisogno di prova. La Corte Costituzionale, ripesca un limite del 20% della diffusione nazionale, che era stato posto per la carta stampata, e lo applica, faute de mieux, al numero di canali nazionali: le conseguenze hanno tenuto occupate le aule parlamentari per oltre un decennio. Fino al disegno di legge Gentiloni, la “legge del 45%”, costruita su un modello a un solo versante del mercato della pubblicità televisiva, mentre già da diversi anni, dopo il lavoro seminale di Jean-Charles Rochet e Jean Tirole, le autorità antitrust usano il modello del two sided market, se vogliono orizzontarsi nella rivoluzione nell’advertising con web 2.0. E invece per Romano Prodi, in una battuta che ricordiamo, “45 mi sembra perfino tanto”.
E veniamo a oggi. Ai fini della politica delle concorrenza, l’elenco dei temi possibili è sterminato. Solo per citarne alcuni: Snam Rete Gas, Poste, Ferrovie. IRI locali, forse Autostrade, forse banda larga; tutti i servizi, dalla grande distribuzione, alle attività private in scuola e sanità, alle professioni. Di tutto ciò non v’è traccia nell’ultima relazione di Antonio Catricalà. Invece se la piglia con le banche per commissione di massimo scoperto che non è di sua competenza; con il capitalismo relazionale, che, in mancanza di poteri reali, resta una puntura di spillo. Offre una sponda al governo sul prezzo unico per i libri.
D’altra parte, che cosa può fare? Se veramente vuole essere per il mercato, l’Antitrust deve essere in primo luogo contro l’invadenza dello Stato. Quando l’IRI faceva tutto fino ai panettoni, che cosa sarebbe riuscita a fare un’Antitrust? Che cosa può fare oggi quando le speranze che i governanti prospettano al Paese vanno in tutt’altra direzione, quando proprio nella concorrenza indicano le ragioni per avere paura? Che cosa fare con un Governo che ha annunciato di volere instaurare il famoso “confessionale” di faziana memoria in cui le aziende (quotate, of course) controllate dallo Stato dovranno sottoporre i propri progetti internazionali, prima di presentarli a consigli e assemblee? Vale la pena impegnare tutta l’artiglieria per far vendere un centinaio di sportelli bancari? Con un Governo non pro concorrenziale, l’Antitrust o è impotente o si riduce ad una funzione amministrativa.
Nella class action, Catricalà intravvede una nuova faglia in cui piantare il cuneo. Da un lato la protezione del consumatore, da sempre un àmbito antitrust; dall’altro la crisi di fiducia nella magistratura. Chi se la sente di addossare una prevedibile valanga di cause complicate su una giustizia che non riesce portare a termine un causa civile prima di 10 anni? Chi si sente tranquillo pensando a class action affidate a certi magistrati? Si sollevano i sopraccigli se Catricalà dice, parlando dell’Antitrust che “un’Autorità è quello che vale nell’opinione pubblica”: non è forse anche quello che la magistratura molte volte sembra pensare di sé?
Catrticalà offre la competenza Antitrust nel misurare gli effetti di fatti economici, offe la propria reputazione. Ci sono perfino precedenti storici: la legge Battaglia affidò all’Autorità poteri e funzioni che Guido Rossi avrebbe voluto affidare alla magistratura.
Naturalmente c’è da chiedersi perché ricorrere al second best, quando il first best è a portata di mano: accantonare il progetto della class action.
Il libro che presentiamo oggi è sull’Antitrust e sulle assicurazioni. Non solo perché è edito dall’Istituto che prende il nome da Bruno Leoni vorrei chiudere queste riflessioni sui rapporti tra antitrust e politica con una sua citazione. Bruno Leoni, che era risolutamente contro i tentativi malagodiani di introdurre in Italia una legge antimonopolio, scrisse: “è veramente divertente vedere quante persone invochino l’intervento dello Stato contro i monopoli, mentre i governi sono precisamente le agenzie grazie alle quali i veri monopoli sono costituiti”. La stessa cosa si può dire delle tante persone che hanno denunciato il duopolio televisivo, nessuna delle quali ha mosso un dito per la privatizzazione della RAI. Privatizzazione, non Fondazione. Solo che non è stato divertente.
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