La riforma della giustizia è imprescindibile, ma è la più difficile. Meglio cimentarsi con cose che non riguardino la pubblica amministrazione come la produttività delle imprese e gli investimenti in infrastrutture. A cominciare dalla scuola
Chiuso il “casino”, tornati silenziosi saloni e giardini, può essere interessante mettere a confronto le conclusioni tratte dall’interno con i suggerimenti che in corso d’opera venivano elargiti all’esterno. In generale vale per gli uni e le altre quello che veniva in mente leggendo, sul Foglio del 17 giugno, “Cambiare l’Italia si può” di Guglielmo Barone, Marco Percoco e Carlo Stagnaro: un titolo da fantascienza, un contenuto o ragionevolmente plausibile (per lo più) o molto rigoroso per evitare di “trasformare gli aiuti europei in clamorosi boomerang”. Ed è proprio su questo che conviene ragionare.
È chiaro che tutti i piani economici del paese debbano fare i conti con il funzionamento della pubblica amministrazione, ma è anche un fatto incontrovertibile che questa è la causa principale dei mali che dovrebbe curare. Ragion per cui il problema è come, non diciamo cambiare l’Italia, ma almeno “convincere gli altri Stati e anche i mercati e gli operatori economici” che essa non ambisce semplicemente a mettere le mani su un nuovo tesoretto, ma intende perseguire una crescita sostenuta e inclusiva.
È sicuramente vero che, come scrivono gli autori, migliorare la performance del sistema giudiziario è imprescindibile, ma è anche vero che questa è, di tutte, la riforma più difficile. Infatti la magistratura, come parte della Pubblica Amministrazione, ne condivide i difetti, e come organo di rilevanza istituzionale gode di autonomia di governo. E poiché è da anni che ci si prova a migliorarne il funzionamento, bisognerebbe spiegare “agli altri Stati e ai mercati” (e anche a noi) perché questa volta sarebbe diverso. Quello che è accaduto proprio in questi giorni con Luca Palamara ne è sconcertante conferma.
Meglio cimentarsi con cose più semplici, e magari che non riguardino la pubblica amministrazione: ad esempio raccontandoci il vero in tema di produttività. Essa è una media di aziende più produttive e di altre meno, il suo valore aumenta se crescono le prime e diminuiscono le seconde: ha invece un effetto negativo quello che si fa per mantenere in vita aziende non produttive. È un rapporto, e se il numeratore decresce o non cresce abbastanza, deve diminuire il denominatore, cioè il lavoro, provvedendo in altro modo a sostenere i lavoratori in esubero. Sappiamo di avere tantissime mini (e magari micro) imprese, in numero percentualmente pari alla Germania, ma ad essa molto inferiori quanto a produttività: anziché dare loro aiuti, anche a fondo perduto, a pioggia, non era possibile subordinarli a qualche forma di aggregazione, o finalizzarli a superare un digital divide che il più delle volte è culturale?
Investimenti certo: quelli infrastrutturali hanno effetto positivo sull’economia già mentre vengono eseguiti, prima di averlo quando saranno completati. Sappiamo che, nel suo complesso, dalla delibera all’inizio dell’esecuzione passano anni. Per riformare il sistema non abbiamo tempo: ma possibile che non si riesca a individuare un insieme, cospicuo ma numerabile, di opere che per la loro specificità possano essere scelte immediatamente e assegnate con una procedura totalmente diversa? Non c’è solo l’esempio del ponte Morandi: ma come pensiamo che sia stata costruita l’Autostrada del Sole? Dobbiamo ricordare come l’Eni di Enrico Mattei superava le resistenze dei comuni per costruire la rete di distribuzione del gas? E le case di Amintore Fanfani? E l’alta velocità (anche se il suo artefice, Lorenzo Necci, ne fu ripagato con anni di galera senza essere mai stato condannato).
C’è un progetto, che ha le caratteristiche da un lato per rientrare in questo “fast track” infrastrutturale, dall’altro per incidere su una delle cause della nostra produttività stagnante. Un grande piano per la scuola: metterle tutte in sicurezza come infrastrutture e dotarle dei mezzi digitali a cui si è fatto ricorso in modalità fai da te durante il lockdown. Non sono un esperto di procedure di assegnazione, ma penso al coinvolgimento di regioni e forse di comuni. E se, con le dovute cautele, ne risultasse una preferenza per aziende locali, potrebbe perfino servire. Con questo piano lo Stato segnalerebbe che è determinato a usare l’educazione come mezzo per attaccare il problema della diseguaglianza; se comunicato in modo adeguato, iniziato rapidamente, controllato in tempi di avanzamento, coinvolgendo le amministrazioni locali, darebbe allo Stato le credenziali per stringere un patto con gli insegnanti: un patto nuovo per cui la scuola, svoltando a 180° rispetto a quanto proclamato anche in tempi anche recenti (ricordate Fioramonti?), misura il merito, degli studenti e degli insegnanti, e lo premia, ciascuno come si conviene. E che da loro ci si aspetta che questo insegnino ai ragazzi, impegnarsi per fare bene (meglio) il proprio lavoro. Nella speranza, questa sì un po’ fantascientifica, che lo imparino pure i genitori.
Anticipato sull’edizione onlilne del 23 giugno 2020
di Carlo Stagnaro, Guglielmo Barone e Marco Percoco – Il Foglio, 17 giugno 2020 La pandemia di Covid-19 ha fatto segnare all’Italia molti record. Siamo uno dei paesi più colpiti sotto il profilo sanitario e, assieme alla Grecia, lo Stato membro dell’Unione europea che subirà le maggiori ripercussioni economiche sulla dinamica del Pil nel 2020 (-9,5 per cento secondo la Commissione Ue), con un relativo rimbalzo, tutto da verificare, nel 2021. Dal punto di vista della finanza pubblica, siamo il paese che avrà il deficit maggiore (11,1 per cento del Pil) e il massimo incremento del rapporto tra debito pubblico e prodotto (24 punti percentuali). Un’analisi di Oxford Economics suggerisce che l’Italia è anche il paese che ha già impiegato il più ampio ammontare di risorse per contrastare la crisi, in rapporto alla dimensione dell’economia. In questo contesto, segnato dall’inevitabile escalation della presenza pubblica nell’economia, riceveremo nei prossimi mesi ulteriori fondi europei: al netto delle (ingenti) operazioni di acquisto della Bce, al nostro paese potrebbero spettare 20 miliardi dal Sure per il sostegno alla disoccupazione, 40 miliardi dalla Bei, 36 miliardi dal Mes, e 170 miliardi di Next Generation Ue, tra prestiti e finanziamenti a fondo perduto. Una massa finanziaria che nessun governo ha mai avuto l’occasione di amministrare e che offre tante opportunità quanti rischi. Se ben impiegati, questi fondi potrebbero consentire all’Italia di fare un salto di qualità, guadagnare terreno sul campo della produttività e compiere un importante passo per ridimensionare gli immensi divari territoriali che dividono il paese. Ma se male utilizzati, possono stringere l’Italia in una tenaglia: da un lato il peso del debito, che in assenza di crescita sostenuta potrebbe rivelarsi particolarmente gravoso, e dall’altro gli effetti perversi della spesa pubblica. Pensiamo non solo a corruzione e malaffare, ma anche alle distorsioni imposte ai sistemi locali attraverso sussidi garantiti a imprese ormai fuori mercato, la cattiva allocazione del capitale, e finanche l’eccesso di pressione fiscale. La morsa dell’alto servizio del debito (cioè la spesa per interessi) e dell’inefficacia della spesa pubblica è drammatica soprattutto se vista da Sud, un territorio che da sempre fatica a crescere e che negli ultimi decenni ha visto sfumare tante occasioni, incrementando, in un circolo vizioso, la dipendenza dai fondi pubblici. E allora, la grande occasione offerta da questo fiume di liquidità non deve essere persa, come tante volte accaduto in passato. Ma proprio per questo è necessario avere le idee chiare sulle risposte da dare a tre domande: che fare? Come farlo? Come fare a sapere che funziona? Proviamo a fornire qualche indicazione sul “Che fare?”. Al di là dei vincoli di destinazione che possono riguardare le singole fonti di finanziamento (per esempio, la spesa sanitaria legata al Covid-19 nel caso del Mes), è cruciale, anche ai fini della sostenibilità del debito, che le risorse siano canalizzate verso utilizzi pro crescita, cioè volti all’incremento della produttività. L’Italia ha chiaramente un problema di forti squilibri territoriali e sociali, ma bisogna resistere alla tentazione di utilizzare i finanziamenti di cui sarà destinataria per redistribuire reddito con interventi di parte corrente. Invece, bisogna investire per formare capitale umano di qualità nelle nostre scuole e università, per sostenere la nuova imprenditorialità, per le infrastrutture (ma solo in quelle i cui benefici superano i costi) . Naturalmente, dotarsi di un apparato pubblico efficiente è una precondizione per qualsiasi iniziativa. Le amministrazioni pubbliche troppo spesso hanno dimostrato di non possedere professionalità e strutture organizzative adeguate e questo rimanda al cronico problema dell’effettiva attuazione delle misure. Quest’ultima considerazione ci porta alla seconda domanda: come fare? Gli investimenti che promuovono la produttività difficilmente si limitano alla realizzazione di asset fisici, quali strade, ferrovie o reti per l’energia elettrica, il gas e le telecomunicazioni. Più spesso passano attraverso miglioramenti organizzativi o revisioni delle regole in modo tale da cambiare gli incentivi degli agenti economici. Per fare solo alcuni esempi: l’insufficiente investimento in innovazione da parte delle imprese italiane dipende, tra l’altro, dalla loro ridotta dimensione e dalle normative che limitano la concorrenza. Bisogna aprire un confronto serio, soprattutto con riferimento al Mezzogiorno, circa la possibilità di una maggiore flessibilità salariale (anche nel settore pubblico), poiché questa potrebbe aiutare a creare nuova occupazione. E, infine, visto che la rapidità e la certezza del diritto e il contrasto alla criminalità sono elementi essenziali per lo svolgimento dell’attività d’impresa, qualunque intervento che migliori la performance del sistema giudiziario è assolutamente imprescindibile. Tutte queste riforme sono spesso complicate, producono benefici diffusi e prolungati nel tempo ma generano nell’immediato scontento per alcuni e, conseguentemente, potenti resistenze lobbistiche. Potrebbe essere opportuno, in questi casi, utilizzare una certa quantità di risorse per compensare i perdenti, in via diretta o indiretta, allo scopo di creare le condizioni di consenso politico senza le quali è impossibile, anche in presenza di leadership forti, cambiare seriamente e in modo duraturo il corso delle cose. Infine, e per certi versi più importante di tutti, il terzo punto: come possiamo capire se abbiamo sbagliato bersaglio? Come possiamo comprendere se, nel tempo, si rendono necessari aggiustamenti agli interventi messi in campo? Per conoscere la realtà bisogna misurarla. Occorre stabilire obiettivi quantificabili e osservare l’evoluzione delle variabili di interesse nel tempo. Ma serve anche che i dati siano messi a disposizione delle istituzioni e dei ricercatori indipendenti per fare leva su quell’immenso bacino di conoscenza valutativa accumulato negli ultimi decenni. Pur in un contesto di scarsa, o almeno eterogenea, attitudine alla valutazione delle politiche, nel nostro paese s’è andato sedimentando un rigoglioso filone di letteratura, ben noto al Ministro del Mezzogiorno Peppe Provenzano. Nonostante i vincoli nell’accesso e nella disponibilità dei dati, gli studiosi hanno analizzato i tanti provvedimenti di spesa introdotti nel tempo, mettendone in evidenza i risultati e traendone indicazioni cruciali per renderli più incisivi. Gran parte dei dati necessari a valutare gli interventi più recenti esistono, ma non sono disponibili. Per esempio, il Sistema Informativo Integrato dell’Acquirente Unico possiede dati in tempo reale sui consumi elettrici di tutte le famiglie italiane; l’Inps ha i dati sui percettori del reddito di cittadinanza, necessari per la valutazione rigorosa di questa misura così impegnativa dal punto di vista sia politico che economico. E gli esempi potrebbero continuare: dagli appalti ai sussidi alle imprese, dalle comunicazioni obbligatorie a indicatori di performance delle amministrazioni pubbliche. La disponibilità di dati in maniera open è una necessità non tanto e non solo per la ricerca, che sotto certe condizioni potrebbe essere considerata un interesse personale del ricercatore, ma soprattutto per la politica. Valutare gli interventi passati non significa esprimere un giudizio perentorio sull’operato di questo o quel governo o ministro, ma significa disporre di una base informativa su cui prendere decisioni future, dunque può essere utile a indirizzare fondi e risorse verso gli usi più efficaci (in base agli obiettivi che rimangono sempre di natura politica e non sempre tecnica). I Ministri Roberto Gualtieri e Stefano Patuanelli sono dunque seduti su giacimenti informativi preziosi e detengono le chiavi del successo della stagione che sta per aprirsi in Italia. Inoltre, un pacchetto di misure comprensive di target intermedi, strumenti di valutazione e open data è funzionale anche a dare forza al governo quando, in sede negoziale, potrà mettere sul tavolo argomenti quantitativi ex ante, la prova che intende seguirne ed eventualmente correggerne l’evoluzione durante, e l’impegno a produrre (e far produrre) esercizi di valutazione ex post. Il nostro Paese deve convincere gli altri Stati e anche mercati e gli operatori economici che non ambisce semplicemente a mettere le mani su un nuovo tesoretto, ma intende finalmente perseguire una crescita sostenuta e inclusiva. Per essere credibile, deve anzitutto convincerne sé stesso.
Cambiare l’italia si può
Il governo deve dimostrare che non ambisce solo a mettere le mani sul tesoretto ma che intende perseguire una crescita inclusiva. Un piano in tre punti per non trasformare gli aiuti europei in clamorosi boomerang
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