di Paolo Savona e Michele Fratianni
Il ministro Carlo Padoan non è uno sprovveduto: conosce l’economia, come disciplina accademica, e ha esperienza di vita concreta di policy all’interno e all’estero. Se dichiara in Parlamento che il programma del Governo Renzi include l’attuazione delle sei raccomandazione che il Consiglio Ecofin dell’Unione Europea dobbiamo credergli. Quando però afferma che la crescita, divenuta l’obiettivo della politica europea, è inferiore alle aspettative – anzi quasi nulla, come indicano la realtà e le ultime previsioni della Banca d’Italia – e tarda a manifestarsi ignora o finge di ignorare che esiste una frattura tra gli auspici di sviluppo del suo Governo e dell’Ue e il programma indicato. Naturalmente risponderà ancora una volta, come fatto dai precedenti ministri, che ciò non è dovuto al programma di riforme richiesteci dall’Europa e accettato dal Governo, ma al ritardo nella sua attuazione.
Il problema, invece, potrebbe essere nel programma stesso. Non è la prima volta che, unitamente a illustri colleghi, abbiamo sostenuto l’incoerenza tra la pressione tributaria sui redditi e sui risparmi e l’inarrestabile procedere della spesa pubblica, che è la vera causa del freno alla crescita del Pil e dell’occupazione. La strategia dominante di riduzione del deficit di bilancio pubblico e di perseguire avanzi primari per ridurre il rapporto fra debito pubblico e il prodotto interno lordo non ha funzionato, anzi ha avuto effetti perversi sulla crescita.
I sacrifici fatti hanno prodotto effetti irrisori rispetto alle forze che agiscono direttamente sulla consistenza della spesa pubblica e del debito statale in rapporto al Pil e hanno penalizzato la crescita economica. Quante altre conferme dobbiamo attendere prima che i Governi cambino strategia? Necessita un’azione sul debito pubblico e non sui flussi che tagli in breve tempo una fetta sostanziosa del suo stock senza penalizzare la crescita economica e il valore reale dei risparmi accumulati dagli italiani. Questa strategia passa attraverso una disponibilità a pronti e una cessione secondo i tempi del mercato dei beni dello Stato che permetta prima un alleggerimento dell’eccessivo peso del settore pubblico sul settore produttivo e poi un rilassamento della morsa deflazionistica dell’alta fiscalità. Il programma di questo Governo non affronta il nocciolo del problema e, di conseguenza, finirà per aggravarlo. Spieghiamo il perché.
Se la politica tributaria suggerita dall’Ecofin e condivisa dal Governo intende spostare l’onere della pressione fiscale dai redditi ai consumi e alla ricchezza, spingendo l’operazione fino a garantire un avanzo primario strutturale che avvii la riduzione del debito pubblico (anche se in un arco di un quarto di secolo), ci sono tutte le premesse che il Paese entri in una crisi strutturale irreversibile. Il problema della povertà di cui si discute in questi giorni verrà attenuato con una riduzione del Pil pro capite che, come noto, è la base di questi calcoli: se tutti diventassimo più poveri a seguito delle politiche seguite, i poveri attuali lo saranno relativamente meno. La filosofia sottostante la politica di redistribuzione del reddito e della ricchezza è nel Dna della sinistra tradizionale. Essa ha come sfondo non ideologico l’ipotesi che i meno abbienti spendano più dei maggiori abbienti e, quindi, il moltiplicatore keynesiano del reddito salga.
Condendo questa filosofia con istanze di equità sociale si ottiene il consenso, ma si produce un risultato perverso sul reddito e l’occupazione perché non si tiene conto che la domanda aggregata riguarda una struttura dell’offerta interna di prodotti e servizi che agisce in senso deflattivo se vengono ridotti i redditi dei più abbienti; ciò induce le imprese a delocalizzare produzioni e occupazione e i risparmiatori a risparmiare di più per fini cautelativi e compensare le perdite di reddito atteso e di valore della ricchezza accumulata dovuto alla maggiore tassazione. Si causa cioè un contro-effetto certo sulla crescita rispetto a quello incerto atteso dalla redistribuzione del reddito. Questo effetto è particolarmente grave nel settore immobiliare che resta un motore di crescita più potente delle esportazioni – come testimoniano anche i dati 2013 esposti nella Relazione della Banca d’Italia – ma viene discriminato come testimoniano le dichiarazioni rese in Parlamento dal ministro dell’Economia, che afferma essere questa una precisa volontà dell’Ecofin.
Draghi condivide questa impostazione avendo escluso l’edilizia dalle operazioni straordinarie finalizzate alla crescita preannunciate per settembre (campa cavallo…) per paura di nuove bolle speculative, mentre in Italia queste “bolle” sono deflattive! In sintesi, temiamo che vi sia una tremenda confusione di idee e, quindi, di politiche. Se il Governo vuole veramente la crescita, operi sulla dimensione e l’efficienza della pubblica amministrazione e lasci in pace fiscalmente il resto del sistema per un lungo periodo. Produzione e occupazione rifioriranno, sospinti da consumi e forse anche da investimenti (ma questa è un’altra e più complicata storia). In queste condizioni potremmo realizzare anche la tanto agognata e necessaria stabilità politica.
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luglio 20, 2014