Un aspetto importante dell’anomalia italiana è caduto: da oggi infatti chiunque voglia svolgere attività di collocamento, di mediazione tra domanda e offerta di lavoro potrà farlo alla luce del sole, e non nella semiclandestinità finora consentita dalla tolleranza dei giudici. La Corte di Giustizia del Lussemburgo, massimo organo giurisdizionale dell’Unione Europea, ha decretato che assicurare il monopolio al collocamento pubblico, in quanto inefficiente, costituisce* abuso di posizione dominante: e ha condannato l’Italia per violazione della libertà di iniziativa garantita dal trattato di Roma.
Perché ci siamo fatti condannare? Perché i governi in carica hanno continuato a difendere una causa persa sul piano legale, sbagliata su quello politico? C’erano stati quattro anni per porvi rimedio: invece, sia il governo Berlusconi – sorprendentemente -, sia quello Prodi, nonostante Treu prima di diventare ministro fosse intervenuto in senso contrario, tutti i governi hanno continuato a difendere il monopolio pubblico.
Non è questa la sola contraddizione. Il collocamento nasce come un’attività gestita privatisticamente, si pensi solo all’Umanitaria a Milano. Diventato pubblico sotto il fascismo, il collocamento fu appannaggio dei sindacati socialcomunisti fino al ’49, quando Fanfani, al termine di una memorabile battaglia parlamentare, espropriò le Camere del lavoro di questa funzione politicamente cruciale e la attribuì al ministero.
Si parla di lotta alla disoccupazione, ma si sa benissimo quali ne sono le cause: che per alcune di esse tassazione sul lavoro, rigidità nei livelli salariali, ostacoli a licenziare rimuoverle urti interessi diffusi e pregiudizi radicati, è un dato di fatto. Ma il collocamento? E’ evidente che quanti più sono i canali, quanto più sono professionali, tanto più probabile sarà che l’offerta di lavoro incontri una domanda: perché allora vietare il loro moltiplicarsi? Dove potevano farlo, imprese private hanno sviluppato tecniche sofisticate per intervistare candidati, per sintetizzare profili professionali, per creare reti di distribuzione delle informazioni. Gli uffici di collocamento invece lavorano con tecniche di cinquant’anni fa, trovano lavoro attraverso di essi meno di cinque lavoratori su cento, e soltanto nelle fasce professionali più basse.
E’ vero, il ministro Treu stava già abrogando il regime di monopolio con un decreto legislativo in forza di una delega contenuta nella legge Bassanini: ma la corporazione del ministero è riuscita a strappare un’ulteriore dilazione di un anno. Da un lato si riconosce l’utilità di attivare molti operatori, dall’altro si dice ai disoccupati di pazientare fino al 1999. Se basterà: perché la corporazione ministeriale vuole essere lei a realizzare e gestire la rete informatica nazionale, indispensabile perché tutti gli operatori vi riversino le loro informazioni. Ricordando il tempo e danaro sprecato nel «Teleporto del lavoro», c’è da scommettere che i disoccupati dovranno attendere più a lungo.
Tutti sappiamo quanto contano le reti informali di conoscenze, parentali o amicali, per trovare lavoro. Si tratta di moltiplicarle, di renderle professionali, di metterle in concorrenza tra loro. La rete informatica nazionale può essere creata in pochi mesi dai privati, sol che glielo si lasci fare. Basterà imporre il rispetto delle garanzie che indicavo nel disegno di legge che ho presentato in Senato otto mesi fa: pubblicità dei profili professionali e riservatezza sui nomi, divieto di richiedere pagamenti ai lavoratori, diritto di accesso alla rete per tutti gli operatori e dovere di riversarvi tutte le informazioni. Continuerà ad esserci posto anche per il collocamento pubblico, se saprà valorizzare esperienze e professionalità: ma senza esclusive.
Per entrare in Europa – non cessa di ricordarcelo il commissario Monti, ancora ieri sul Corriere della Sera – conta il rispetto dei parametri, contano gli enormi progressi fatti. Ma corriamo il rischio di «essere terra di conquista, considerata come un mercato supplementare anziché come un agguerrito produttore di beni e di profitti». Prodi può pur dire che con l’entrata nell’euro il suo compito è finito: in realtà da quel giorno il compito per il Paese è ancora più stringente. Tra le riforme strutturali elencate da Monti non tenere in piedi strutture pubbliche inefficienti, incidere sulle rigidità del mercato del lavoro – la riforma del collocamento rientra a pieno titolo. Ad attuarla non è il caso di attendere neppure un giorno.
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dicembre 12, 1997