Nella mia esperienza di parlamentare convinto dell’utilità per il Paese di aprire al mercato e alla concorrenza molti settori della vita italiana che ne restano esclusi, c’è una cosa che col tempo mi è divenuta sempre più chiara. Non c’è niente di peggio che apparire un estremista convinto a priori della bontà delle soluzioni che indica. Se si suscita questa reazione, si ottiene solo l’effetto di allontanare financo la possibilità che il confronto avvenga sui problemi concreti. E si finisce automaticamente per fare il gioco di coloro che, si tratti di sincere convinzioni ideologiche o di interessata tutela dei monopolisti. nulla di meglio chiedono che liquidare nuove proposte come pure astrazioni, magari inadatte al ruolo giocato nel nostro Paese dalla mano pubblica.
Mi è capitato in passato di avvertire intorno a me questa sgradevole sensazione: si trattasse della battaglia che ho condotto per la dismissione da parte delle fondazioni pubbliche delle imprese bancarie, oppure di quella per un mercato dell’elettricità e del gas non più a operatore unico. Ogni qualvolta ci si riduce alla logica del muro contro muro. partigiani del pubblico contro quelli del privato, è più difficile mostrare in che cosa concretamente gli interessi dell’utenza. delle amministrazioni e dell’economicità di gestione delle imprese possano trarre giovamento da soluzioni più orientate al mercato.
Ho fatto questa premessa per sgombrare il campo da un equivoco prima ancora di entrare nel merito della Mia iniziativa legislativa. Per questo ho accolto molto volentieri l’invito a illustrarla sulla rivista mensile che raggiunge il tavolo di lavoro cli tutti i sindaci italiani, e insieme cli tutti coloro che a vario titolo sono impegnati nelle amministrazioni locali. Il mio fine è innanzitutto quello cli evitare che la proposta che avanzo appaia – a chi fa ogni giorno amministrazione locale in Italia – la pura provocazione di un parlamentare in cerca di qualche titolo cli giornale. Mi propongo invece di verificare che tipo di reazione possa suscitare una norma diretta “all’apertura al mercato dei servizi pubblici locali, per la loro riorganizzazione e sviluppo su base concorrenziale”, come recita il titolo del disegno di legge 3295 che ho depositato in Senato il 26 maggio scorso.
La rilevanza del tema non sta solo nella concreta esperienza quotidiana degli amministratori. Sta ancor più nel fatto che i servizi pubblici locali – insieme a quelli nazionali – costituiscono uno dei terreni più delicati del rapporto tra cittadini e titolari di responsabilità politiche e ani ministrative. Un terreno dove protesta e sfiducia prevalgono rispetto alla soddisfazione figlia di buoni servizi offerti: e il più delle volte non per mancanza di volontà o professionalità dell’amministratore locale o di chi gestisce le municipalizzate, ma per il peso incancrenito rappresentato da princìpi organizzativi e strumenti attuativi che sono eredità del passato. È per questo intreccio di aspetti politici e regolativi che, recentemente, il richiamo ad affrontare il tema è venuto anche da due autorità tra le più alte nei rispettivi campi. Il Presidente dell’Antitrust Tesauro, nella sua relazione annuale pronunciata il 20 maggio scorso, ha osservato che “il settore dei servizi pubblici è caratterizzato da limitazioni legali all’accesso e da un’ampia diffusione di diritti speciali ed esclusivi”. E il presidente del Consiglio Prodi, intervenendo all’assemblea di Assolombarda il successivo 1 giugno, per parte sua ha detto di “considerare le privatizzazioni locali non meno rilevanti di quelle nazionali”. Aggiungendo che bisogna muoversi anche per evitare che, per effetto del mercato unico europeo, di qui a qualche anno i cittadini italiani finiscano per trovare più conveniente servirsi da qualche azienda francese o tedesca.
Municipalizzate e s.p.a.
Veniamo al punto centrale: quello che potrebbe forse alimentare diffidenze o sospetti da parte degli amministratori locali. comprensibilmente poco proclivi a ritenere che uno strumento legislativo nazionale possa essere davvero d’aiuto, e non risolversi invece in un’indebita – ed enne sima – invasione di competenze. È per questo che nella mia proposta di legge ho deciso di evitare ogni imposizione di riorganizzazione dei servizi pubblici locali attraverso la definizione dal centro di uno o più nuovi modelli giuridici cogenti. Un eventuale obbligo di trasformazione di tutte le aziende municipalizzate in società per azioni non garantirebbe solo per questo gestioni più efficienti, e tanto meno una più rapida apertura alla concorrenza. Dal Bollettino delle privatizzazioni ricavo i seguenti dati a testimonianza della diversità di regimi attualmente operanti: nel solo campo della produzione e distribuzione dell’energia elettrica sono attive, accanto all’Enel. 57 aziende municipalizzate (oltre a quattro cooperative), e che oltre a queste aderiscono a Federelettrica altre 32 società di servizi cli pubblica illuminazione, per un totale di 93 aziende, 31 delle quali gestioni in economia mentre la 322, la Silfi di Firenze, è una S.p.A. ed è anche l’unica delle 89 municipalizzate di settore a essere stata privatizzata.
Allo stesso modo. non mi è parso utile procedere alla specificazione ex lege di una nozione oggettiva di servizio pubblico locale. Si tornerebbe al criterio elencatorio della legge Giolitti sulla municipalizzazione dei servizi pubblici nel 1903. e si taglierebbe l’erba sotto i piedi degli enti locali, privandoli della facoltà di valutare nei diversi contesti i bisogni delle diverse comunità.
Per questo il ddl che ho elaborato si fonda su due principi egualmente essenziali: da una parte l’autonomia pubblica degli enti locali e dall’altra l’autonomia imprenditoriale degli operatori del settore dei servizi. Viene sancita la piena autonomia degli enti locali di effettuare ogni intervento di carattere economico e sociale utile per le rispettive popolazioni, ma senza che si possano accampare privilegi pubblicistici bensì agendo secondo le regole del diritto civile, senza cioè arroccarsi né dietro poteri autoritativi né su monopoli di fatto. Se gli enti locali intendono essere presenti anche nella gestione, potranno farlo ma su un piano di assoluta par condicio: e questo già sarebbe a mio giudizio più che sufficiente per immettere nel sistema, entro tempi ragionevolmente brevi, adeguate dosi di liberalizzazione e concorrenza. A questa regola di parità con i privati, in ogni intervento economico-sociale, farebbero eccezione solo i servizi pubblici obbligatori che la legge impone agli enti locali di prestare, dallo smaltimento dei rifiuti alle fognature: anche per questi, tuttavia, dovrebbe valere la concorrenza nell’acquisizione del ruolo cli gestore, e la trasparenza costo-contro-prestazione.
Efficacia ed efficienza del servizio
Come garantire che un processo di riorganizzazione basato su questi presupposti avvenga in concreto? Si toccano qui due diverse questioni, che in realtà sono indissolubilmente intrecciate. La prima è quella dei bacini di utenza ottimali per l’offerta dei servizi: perché essi vengano erogati secondo criteri di economicità, efficacia ed efficienza. La seconda è quella di come sciogliere il nodo dell’interazione tra le diverse competenze locali in ragione dell’ampiezza dei bacini di utenza medesimi. È evidente infatti che sin qui in moltissimi casi è stata proprio la parcellizzazione dell’ambito territoriale in cui operano le imprese erogatrici di servizio pubblico locale a dare a quest’ultimo l’apparenza di ricadere nella condizione tipica di un monopolio naturale: ma si tratta, appunto, di mera appa-renza, poiché dimensioni più ampie del bacino di utenza possono consentire strutture di costo e oneri di gestione assai più convenienti, e dunque aprire anche alla concorrenza. Tuttavia, l’esperienza insegna che quando un processo di riorganizzazione si affida al concorso di una molteplicità di soggetti senza tempi perentori in assenza dei quali scatta un meccanismo automatico, diviene inevitabile il rischio che la molteplicità di interessi in gioco rallenti talmente il processo da metterne a rischio l’esito.
Ecco perché nell’articolo 2 della proposta di legge che ho depositato si dispone che alla riorganizzazione si proceda seguendo il principio della necessaria cooperazione tra enti locali: e in coerenza al rispetto delle autonomie neppure in questo caso si identifica in forma oggettiva la forma associativa di cooperazione in un determinato modello di ente o agenzia. La scelta di tale modello viene rimessa al confronto tra Regioni, Province e Comuni, ai sensi del noto d.lgs. 31 marzo 1998, n.112. A proposito cli tali forme associative di cooperazione tra enti locali, in coerenza al fine della mia proposta viene però dichiaratamente escluso che esse possano consistere o diventare strumento di gestione: esse devono rimanere intese al superamento della frammentazione delle decisioni dei singoli Comuni. cli conseguenza l’eventuale natura consortile riguarda le funzioni e non la gestione. E poiché sono oggi organizzate come servizio pubblico moltissime attività anche non obbligatorie per i Comuni, in attesa del processo cli liberalizzazione le forme associative di cooperazione possono essere utilmente utilizzate anche come tappa intermedia tra il passaggio dall’attuale regime amministrativo e la condizione finale di assoluta parità tra soggetti pubblici e privati nell’attività economico-sociale.
La buona volontà non basta: ci vogliono tempi certi.
Tuttavia ho ritenuto di definire ex lege uno scadenzario perché queste trasformazioni avvengano. Ed è forse questo il punto più delicato della mia proposta. L’ambito territoriale cli riferimento per la riorganizzazione dei servizi pubblici locali, infatti, comprendente popolazioni non inferiori a 300mila abitanti, verrebbe fissato con legge regionale entro sei mesi dall’entrata in vigore della norma: scaduto il termine invano, in attesa delle normative regionali la legge automaticamente prevederebbe di considerare l’ambito territoriale dei bacini di utenza coincidente con il territorio delle Province. Ripeto: ho ben presente che tale meccanismo può apparire a molti amministratori locali non sufficientemente rispettoso delle proprie valutazioni rispetto al preponderante ruolo affidato alle Regioni, ed è su questo punto dunque che mi aspetto reazioni anche comprensibilmente dissenzienti. Per parte mia, non difendo il meccanismo da me proposto come l’unico valido: quel che mi interessa è disporre tempi certi alla concertazione necessaria degli enti perché alla fine la riorganizzazione dei servizi sia certa per l’utente e per la concorrenza dei privati che possano concorrere alle gestioni. E se esistono strade più “concertative” di quella che ho qui proposto, ben vengano: basta che, appunto, i tempi siano certi e non affidati alla mera buona volontà. Questi i punti cli fondo della mia proposta. Essa tocca poi diversi altri aspetti non secondari, ai fini di garantire più concorrenza nei servizi: dall’opzione della separazione tra reti e servizi al limite di durata dei contratti di fornitura nei rapporti di concessione, ai modi per rendere più “forte- la pressione dell’utenza garantendo la trasparenza e la pubblicità dei costi di servizio. Ma di tutto questo potremo meglio parlare se. intanto. la mia proposta consentirà l’apertura di un dibattito con voi tutti.
L’essenziale è capirsi su un punto: questa legge non spoglia i Comuni, al contrario consente la valorizzazione delle proprie aziende. Pensate a che cosa può significare. sotto questo profilo, l’obbligo cli procedere a gara anche per la gestione dei servizi pubblici obbligatori: ogni azienda potrebbe concedere anche fuori dal proprio bacino di utenza vocazionale, con risultati che i cittadini e gli elettori saprebbero immediatamente ricondurre all’azione degli amministratori più intraprendenti nel produrre risultati di questo genere. Sono certo che, su questa base, l’interesse ad avviare il processo cli riorganizzazione non può che essere condiviso dalla stragrande maggioranza di voi.
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Antitrust: il monopolio danneggiai consumatori e non rafforza le aziende
di Giuseppe Tesauro – Rivista Anci, Luglio 1998
luglio 1, 1998