Concentrazioni si, ma senza distorsioni

aprile 2, 1999


Pubblicato In: Giornali, Il Sole 24 Ore


I dettagli delle operazioni Imi Sanpaolo-Banca di Roma, e Credito italiano-Banca commerciale sono ancora largamente imprecisati, tra mosse di attacco e di difesa molti sono gli esiti possi­bili, compreso perfino il loro accan­tonamento. Ma i progetti pongono rilevanti problemi di carattere siste­mico che proprio questa condizio­ne di fluidità consente di analizza­re in modo generale e con il neces­sario distacco.

Quando l’economia italiana era retta dal sistema tolemaico, tre sfe­re ruotavano in celeste armonia: quella del credito, tutto pubblico e in maggioranza in mano alle casse di risparmio; quella delle grandi im­prese private, perlopiù radunate nel­la costellazione Mediobanca; quella delle aziende di Stato. Venne la rivoluzione copernicana, e sembrò vera rivoluzione; ma oggi, retrospet­tivamente, si constata con sorpresa quanto poco in realtà essa abbia cambiato la configurazione astrale.

Sfera delle banche: le fondazio­ni sono ancora largamente gli azio­nisti di riferimento, anzi Unicredit è lì a ricordare quanto sia difficile stabilire, nelle attrazioni gravitazio­nali, chi attrae e chi è attratto.

Costellazione Mediobanca: al­cune stelle sono implose, altre si sono allontanate dal suo centro; la configurazione non ha lo splendore la fissità d’un tempo, ma resta quella di sempre.

Sfera delle aziende di Stato: nuclei stabili, poteri speciali, dog­ma dell’intangibilità del perimetro aziendale, tutto è lì per assicurare stabilità agli assetti proprietari e rinviare il momento in cui sarà il mercato e non il Tesoro a stabilir­ne di nuovi. Quanto ad Eni, del suo 35% ancora in mano allo Stato non si parla più, e del monopolio del gas (99% delle importazioni, 97% del trasporto, 95% della distribuzio­ne primaria) da cui trae i suoi pro­fitti e con cui cresce i suoi allori, si parla soltanto.

Fummo in molti a reclamare più decise aperture alle dinamiche di mercato, i lettori di questo giornale ne sono testimoni. Così, insieme a De Nicola, Giavazzi e Penati, per privatizzare le Casse di risparmio proposi un metodo che avrebbe da­to al Paese banche ad azionariato largamente diffuso, e un patrimo­nio liquido alle fondazioni. Invece, quattro anni dopo è stata approvata una legge che dà alle fondazioni altri quattro anni per scendere nel capitale delle banche fino a un limi­te sulla cui controversa interpreta­zione si spera i decreti legislativi facciano luce e giustizia. E perché ci vuole gradualità, si disse. Per la gradualità si fa delle fondazioni l’Ersatz degli inve­stitori istituzionali, nonostante i loro amministratori siano di nomi­na pubblica, e nonostante le fondazioni siano sottratte alla pressione del mercato, e quindi scher­mino dalla pressione del mercato le banche di cui restano azionisti importanti.

Ancora la gradualità viene oppo­sta a chi come me chiede che la privatizzazione comporti la dismis­sione di attività non centrali, o la vendita per parti separate: che si tratti della rete di trasmissione per Enel, del gas per Eni, a suo tempo della telefonia mobile per Telecom.

L’astronomia era sì diventata co­pernicana, ma le stelle stavano an­cora nelle sfere del cielo tolemai­co: in nome della gradualità. Per cambiare era necessario modifica­re le leggi di gravitazione; fu pro­prio per questo che sulla legge Draghi si formò il largo consenso che emerse chiaramente nel convegno che organizzai a Torino nel febbra­io 1998. A un anno di distanza, l’Opa Olivetti ha dimostrato che lo strumento funziona; che, rendendo più scalabili le imprese e più re­sponsabili gli amministratori, con­sente alle forze di mercato di abbat­tere i gradualismi; che la dimensio­ne non è un ostacolo alla ricerca di assetti più efficienti.

Ritornando ora a considerare le operazioni Credit-Comit, e quella Imi Sanpaolo-Banca di Roma, e le loro varianti nel loro insieme, indi­pendentemente dai meriti dei piani industriali, c’è da chiedersi: in che direzione agiscono le forze in cam­po, quali sono le logiche a cui obbediscono? Non ci sarebbe al­cun dubbio a rispondere che si va nella direzione della trasparenza de­gli assetti proprietari e della effi­cienza di quelli aziendali, se tutti i soggetti interessati alle operazioni si muovessero interamente nella lo­gica copernicana, se cioè le banche facessero solo le banche, se a muo­verle fosse solo la ricerca di com­plementarità e di risparmi. Ma così potrebbe anche non essere: banche e fondazioni sono state usate anche come strumenti della transizione, le partecipazioni che sono state lo­ro assegnate nelle aziende privatiz­zate, i loro rapporti con la costella­zione delle aziende private sono quelli dell’epoca tole­maica. Di fatto potreb­bero voler garantire continuità con quella astronomia.

Concentrazioni tra banche italiane, che consentano di affronta­re da posizione meno debole la successiva fase di concentrazione a livello euro­peo, non possono che essere viste con favore. Ma a patto che sia solo questa la logica che guida il proces­so; a patto di riuscire a isolarlo totalmente da quello, analogo ma distinto e autonomo, che pure inve­ste il sistema delle imprese, a patto che si garantisca che il mondo del­le imprese e le dinamiche che lo riguardano siano schermati dalle conseguenze di operazioni che ri­guardano le banche. E ciò per più ragioni.

  1. Di trasparenza: gli azionisti del­le banche devono poter giudicare i progetti di fusione per quello che sono in sé, e non, poniamo, per i comportamenti che consentono di assumere nell’assemblea di Tele­com; devono poterli valutare per i vantaggi che apportano all’attività della banca e non, per fare un altro esempio, per l’influenza che l’ac­quisizione del controllo di Medio-banca consentirebbe di esercitare sul sistema delle imprese private.
  2. Di coerenza: la logica coperni­cana modificherà gli equilibri proprietari delle grandi aziende priva­te ma a dettarne tempi e modi devo­no essere le forze di mercato che agiscono sulle singole aziende. Da ciò discende, se le operazioni pro­spettate implicassero un mutamen­to dell’assetto proprietario di Me­diobanca, che tre possibili conse­guenze risulterebbero tutte inoppor­tune e inaccettabili. La prima, che ciò comportasse una frettolosa liquidazione di partecipate e contro late. La seconda, che la modifica del tanto demonizzato «sistema Mediobanca» consistesse puramente nella sostituzione del vertice dell’istituto di via Filodrammatici. La terza che le conseguenti modifiche del patto di sindacato Medio banca si traducessero nella sua consegna a una cosiddetta public company puntellata dalle Fondazioni.
  3. Di politica: la concentrazione di potere nelle mani di pochissimi soggetti che conseguirebbe a qualche combinazione tra le operazioni ipotizzate sarebbe impressionante, gli stessi promotori delle iniziative di cui qui si disquisisce sono troppo esperti per non essere i primi forse, a preoccuparsene. Nel caso di un’operazione pur rilevantissima come Telecom, il Governo ha dimostrato un encomiabile distacco. Ma quand’anche non presentassero profili rilevanti per l’Antitrust, eccessive concentrazioni di potere inevitabilmente susciterebbero atteggiamenti meno neutrali. A chi istintivamente ne diffida, a chi quando li riconosce giustificati, non resta che augurarsi che non siano necessari.
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