I dettagli delle operazioni Imi Sanpaolo-Banca di Roma, e Credito italiano-Banca commerciale sono ancora largamente imprecisati, tra mosse di attacco e di difesa molti sono gli esiti possibili, compreso perfino il loro accantonamento. Ma i progetti pongono rilevanti problemi di carattere sistemico che proprio questa condizione di fluidità consente di analizzare in modo generale e con il necessario distacco.
Quando l’economia italiana era retta dal sistema tolemaico, tre sfere ruotavano in celeste armonia: quella del credito, tutto pubblico e in maggioranza in mano alle casse di risparmio; quella delle grandi imprese private, perlopiù radunate nella costellazione Mediobanca; quella delle aziende di Stato. Venne la rivoluzione copernicana, e sembrò vera rivoluzione; ma oggi, retrospettivamente, si constata con sorpresa quanto poco in realtà essa abbia cambiato la configurazione astrale.
Sfera delle banche: le fondazioni sono ancora largamente gli azionisti di riferimento, anzi Unicredit è lì a ricordare quanto sia difficile stabilire, nelle attrazioni gravitazionali, chi attrae e chi è attratto.
Costellazione Mediobanca: alcune stelle sono implose, altre si sono allontanate dal suo centro; la configurazione non ha lo splendore la fissità d’un tempo, ma resta quella di sempre.
Sfera delle aziende di Stato: nuclei stabili, poteri speciali, dogma dell’intangibilità del perimetro aziendale, tutto è lì per assicurare stabilità agli assetti proprietari e rinviare il momento in cui sarà il mercato e non il Tesoro a stabilirne di nuovi. Quanto ad Eni, del suo 35% ancora in mano allo Stato non si parla più, e del monopolio del gas (99% delle importazioni, 97% del trasporto, 95% della distribuzione primaria) da cui trae i suoi profitti e con cui cresce i suoi allori, si parla soltanto.
Fummo in molti a reclamare più decise aperture alle dinamiche di mercato, i lettori di questo giornale ne sono testimoni. Così, insieme a De Nicola, Giavazzi e Penati, per privatizzare le Casse di risparmio proposi un metodo che avrebbe dato al Paese banche ad azionariato largamente diffuso, e un patrimonio liquido alle fondazioni. Invece, quattro anni dopo è stata approvata una legge che dà alle fondazioni altri quattro anni per scendere nel capitale delle banche fino a un limite sulla cui controversa interpretazione si spera i decreti legislativi facciano luce e giustizia. E perché ci vuole gradualità, si disse. Per la gradualità si fa delle fondazioni l’Ersatz degli investitori istituzionali, nonostante i loro amministratori siano di nomina pubblica, e nonostante le fondazioni siano sottratte alla pressione del mercato, e quindi schermino dalla pressione del mercato le banche di cui restano azionisti importanti.
Ancora la gradualità viene opposta a chi come me chiede che la privatizzazione comporti la dismissione di attività non centrali, o la vendita per parti separate: che si tratti della rete di trasmissione per Enel, del gas per Eni, a suo tempo della telefonia mobile per Telecom.
L’astronomia era sì diventata copernicana, ma le stelle stavano ancora nelle sfere del cielo tolemaico: in nome della gradualità. Per cambiare era necessario modificare le leggi di gravitazione; fu proprio per questo che sulla legge Draghi si formò il largo consenso che emerse chiaramente nel convegno che organizzai a Torino nel febbraio 1998. A un anno di distanza, l’Opa Olivetti ha dimostrato che lo strumento funziona; che, rendendo più scalabili le imprese e più responsabili gli amministratori, consente alle forze di mercato di abbattere i gradualismi; che la dimensione non è un ostacolo alla ricerca di assetti più efficienti.
Ritornando ora a considerare le operazioni Credit-Comit, e quella Imi Sanpaolo-Banca di Roma, e le loro varianti nel loro insieme, indipendentemente dai meriti dei piani industriali, c’è da chiedersi: in che direzione agiscono le forze in campo, quali sono le logiche a cui obbediscono? Non ci sarebbe alcun dubbio a rispondere che si va nella direzione della trasparenza degli assetti proprietari e della efficienza di quelli aziendali, se tutti i soggetti interessati alle operazioni si muovessero interamente nella logica copernicana, se cioè le banche facessero solo le banche, se a muoverle fosse solo la ricerca di complementarità e di risparmi. Ma così potrebbe anche non essere: banche e fondazioni sono state usate anche come strumenti della transizione, le partecipazioni che sono state loro assegnate nelle aziende privatizzate, i loro rapporti con la costellazione delle aziende private sono quelli dell’epoca tolemaica. Di fatto potrebbero voler garantire continuità con quella astronomia.
Concentrazioni tra banche italiane, che consentano di affrontare da posizione meno debole la successiva fase di concentrazione a livello europeo, non possono che essere viste con favore. Ma a patto che sia solo questa la logica che guida il processo; a patto di riuscire a isolarlo totalmente da quello, analogo ma distinto e autonomo, che pure investe il sistema delle imprese, a patto che si garantisca che il mondo delle imprese e le dinamiche che lo riguardano siano schermati dalle conseguenze di operazioni che riguardano le banche. E ciò per più ragioni.
- Di trasparenza: gli azionisti delle banche devono poter giudicare i progetti di fusione per quello che sono in sé, e non, poniamo, per i comportamenti che consentono di assumere nell’assemblea di Telecom; devono poterli valutare per i vantaggi che apportano all’attività della banca e non, per fare un altro esempio, per l’influenza che l’acquisizione del controllo di Medio-banca consentirebbe di esercitare sul sistema delle imprese private.
- Di coerenza: la logica copernicana modificherà gli equilibri proprietari delle grandi aziende private ma a dettarne tempi e modi devono essere le forze di mercato che agiscono sulle singole aziende. Da ciò discende, se le operazioni prospettate implicassero un mutamento dell’assetto proprietario di Mediobanca, che tre possibili conseguenze risulterebbero tutte inopportune e inaccettabili. La prima, che ciò comportasse una frettolosa liquidazione di partecipate e contro late. La seconda, che la modifica del tanto demonizzato «sistema Mediobanca» consistesse puramente nella sostituzione del vertice dell’istituto di via Filodrammatici. La terza che le conseguenti modifiche del patto di sindacato Medio banca si traducessero nella sua consegna a una cosiddetta public company puntellata dalle Fondazioni.
- Di politica: la concentrazione di potere nelle mani di pochissimi soggetti che conseguirebbe a qualche combinazione tra le operazioni ipotizzate sarebbe impressionante, gli stessi promotori delle iniziative di cui qui si disquisisce sono troppo esperti per non essere i primi forse, a preoccuparsene. Nel caso di un’operazione pur rilevantissima come Telecom, il Governo ha dimostrato un encomiabile distacco. Ma quand’anche non presentassero profili rilevanti per l’Antitrust, eccessive concentrazioni di potere inevitabilmente susciterebbero atteggiamenti meno neutrali. A chi istintivamente ne diffida, a chi quando li riconosce giustificati, non resta che augurarsi che non siano necessari.
aprile 2, 1999