“La fortuna di un popolo non sta principalmente nei beni di cui dispone, ma nella coesione tra le sue parti, nella loro capacità di dividersi il lavoro e concordarne la distribuzione dei frutti; litigando, magari, ma sempre nella consapevolezza che non c’è un futuro per nessuno se non insieme agli altri. Allo stesso modo, la ricchezza di una grande metropoli sta tutta nella capacità di ogni sua parte di coordinarsi con le altre, nella percezione diffusa della prontezza reciproca come fonte di sicurezza e benessere per tutti: un grande gioco in cui tutti hanno da guadagnare”.
Il libro di Ichino “A che cosa serve il Sindacato?” , da cui è tratta questa citazione, è uscito nell’ottobre 2005. Sono passati quattro mesi dalla sua appassionata provocazione, siamo a due mesi dal voto, ma il sindacato rimane il grande assente nella discussione politica e nei programmi dell’Unione. In un convegno programmatico a Bologna di Governareper, il think tank della fabbrica del programma di Romano Prodi, a cui avevo partecipato all’inizio di novembre, la parola sindacato non era neppure stata pronunciata. Perché questa assenza? Perchè si associa il sindacato alla grande impresa fordista, e si sa che non è da quella che verrà la ripresa? O perché lo si associa agli scioperi nei servizi pubblici, e si è rassegnati a considerarli «atti di Dio», calamità naturali, sperando solo in un trattamento più benevolo? O perché non si ha il coraggio di porsi la domanda radicale che dà il titolo al libro di Pietro Ichino?
A chi governerà non basteranno rigore e sacrifici, la lotta all’evasione e un fisco che ridistribuisca quello che c’è: la crescita è la strada obbligata. Ma per la crescita, soprattutto per la crescita della produttività, nel settore manifatturiero si dovranno cercare economie di scala; e dovrà aumentare il peso dei servizi nel prodotto nazionale. Sarà una gigantesca operazione di ristrutturazione del nostro apparato produttivo, milioni di persone che dovranno cambiare lavoro e forse casa, acquisire competenze nuove. Come farlo senza il contributo positivo del sindacato? Gli strumenti per il recupero di produttività si chiamano scuole, università, ricerca, un’amministrazione efficiente, la certezza del diritto in tempi rapidi, logistica ecc. Ma si misurano in lustri i tempi necessari per prima mettere in campo questi strumenti e poi per attendere che producano i loro effetti. E poichè noi non possiamo attendere, dobbiamo usare le risorse che già ci sono, organizzandole diversamente. “In attesa, scrive Ichino, che le nostre piaghe possano essere sanate, per compensarne gli effetti negativi, sono necessari, per lo più, maggior rischio e maggior lavoro, in cambio di un corrispettivo non immediato. Per questo occorre una condivisione piena dell’informazione sul quadro in cui si deve operare e i mezzi disponibili, sulla quale possa costruirsi una visione comune dei vincoli e degli ostacoli da superare; ed è ovviamente indispensabile anche un accordo sulla spartizione futura dei frutti della scommessa comune, quando questa sarà stata vinta. Questi sono i passaggi nei quali il sindacato può svolgere un ruolo prezioso, sovente insostituibile”.
E’ proprio così irrealistico pensare che il sindacato sia capace di questa rivoluzione culturale? Il sindacato è nato per impedire la concorrenza tra lavoratori e difenderli dallo sfruttamento del padrone: ma oggi ci si mette fuori dal gioco se non si è capaci di guardare alla concorrenza non come a un male da cui difendersi, ma come al motore insostituibile dello sviluppo, come procedura per la scoperta, come garanzia di difesa dei consumatori. Oggi, almeno nell’Italia del lavoro regolare, ben più immanente del pericolo di regredire verso forme di dumping sociale, di lotta tutti contro tutti, é quello di regredire come Paese intero, di perdere contatto con l’Europa e venire marginalizzati. E’ già successo dal altri, è già successo nella nostra storia.
In Italia, a garantire i diritti del lavoratore ci sono leggi, una magistratura specializzata, una giurisprudenza consolidata, un robusto sentire sociale. Sarebbe imprudente dare le conquiste per definitivamente acquisite, ma sarebbe mortale non cogliere il nuovo campo di azione in cui il sindacato può avere un ruolo da protagonista. La rivoluzione culturale che deve compiere il sindacato – e specularmente Confindustria, beninteso – sta proprio in questo passaggio dalla preoccupazione per la generalità dei diritti da tutelare, a quella per la specificità delle occasioni da cogliere; dalla preoccupazione di proteggere l’identità del lavoratore in quanto tale, a quella di consentirgli lo specifico dei suoi percorsi individuali. E questo richiede, in primo luogo, di spostare la contrattazione dall’astrattezza del contratto nazionale, alla concretezza del contratto aziendale (o distrettuale o regionale). Non per nulla questa innovazione, e quella che immediatamente ne discende della rappresentanza sindacale, occupa un posto centrale tra quelle su cui Ichino sfida il sindacato.
Il sindacato come intelligenza collettiva. Intelligenza capace di valutare, nell’interesse dei lavoratori, rischi e opportunità della scommessa imprenditoriale che il lavoratore è chiamato a condividere. Un ruolo insostituibile: perché solo il sindacato può colmare almeno in parte l’asimmetria informativa tra lavoratore e impresa, solo lui ha la memoria storica e la capacità di valutare l’affidabilità della controparte. Certo è molto più difficile compromettersi nel concreto di un progetto aziendale, piuttosto che infarcire i contratti nazionali con centinaia di norme che minuziosamente regolino tutte le fattispecie di situazioni della vita in fabbrica. E’ molto più rischioso pronunciarsi su una scommessa, piuttosto che su grandi questioni di principio, in estenuanti negoziazioni di mesi, su piattaforme uguali per tutta una categoria di lavoratori.
Non sono ipotesi o chimere: é accaduto. Ichino cita i casi storici dell’industria automobilistica, quelli delle officine della British Motors rilevate dalla Nissan, quello dello stabilimento Saturn della GM. Il paragone con la storia del comprensorio Alfa Romeo di Arese è devastante: 1500 lavoratori, di buona preparazione professionale, nella zona più dinamica d’Italia, tenuti per anni in uno stato di cronica cassa integrazione, prigionieri di un sindacato che aveva deciso che in quel comprensorio si dovevano fare auto e nient’altro.
L’innovazione non è solo Nokia o alta velocità, innovazione è anche Zara o Ikea. Innovazione sono anche i nuovi modelli di business, e di regola comportano nuovi modi di impiego del lavoro. E quanto più nuovi sono, tanto più è improbabile è che fossero già previsti tra quelli minuziosamente codificati nei contratti nazionali. Il Paese che ha inventato il cappuccino non ha visto nascere una Starbucks: con le nostre norme sul lavoro non sarebbe nata neppure in America. Sindacati come venture capital del lavoro? Meno paradossale di quanto sembra. I sindacati hanno più di altri elementi per valutare opportunità e rischi, per distinguere l’imprenditore vero dal cialtrone: perché non dovrebbero usarli nel valutare e se del caso nell’accompagnare progetti basati su forme di organizzazione del lavoro anche se richiedono deroghe ai contratti nazionali? Quanto è il potenziale di aumento di produttività che oggi va sprecato? Quante imprese marginali, magari in zone svantaggiate del paese, riuscirebbero a trovare la loro nicchia per sopravvivere e forse riprendersi con salari anche più bassi del minimo nazionale? Non siamo nella condizione di preferire che chiudano ed escano dal sistema produttivo. Non possiamo sprecare l’aumento di produttività ottenibile incentivando i lavoratori che sono disposti a partecipare alla scommessa, accettando magari una riduzione della parte fissa del salario a fronte della possibilità di un guadagno più elevato. Magari – orrore! – accettando dei limiti al proprio diritto di sciopero. Perché non accettare perfino una concorrenza tra sindacati, questa volta non nell’alzare vieppiù le difese a protezione dell’esistente, ma nello spianare la strada al sorgere del possibile?
Bisogna dare a questo cambio di prospettiva del sindacato la dignità che gli compete, collocandolo di diritto nell’ambito delle innovazioni istituzionali. Queste, scrivono Raimondo Cubeddu e Alberto Vannucci in un lavoro recentemente presentato da Società Libera, consentono enormi recuperi di competitività. Se le imprese italiane cercano protezioni invece che affrontare il mare aperto della concorrenza, non è per intrinseca debolezza, o per condanne antropologiche, o per mancanza di spirito imprenditoriale, ma per ragioni quali ”l’alto pedaggio da pagare nei rapporti con lo Stato, l’asimmetrica distribuzione delle informazioni, l’incerta attribuzione di responsabilità ai decisori pubblici e privati e l’affievolirsi dei diritti di proprietà, connessa alla vischiosità delle procedure di protezione pubblica”. Anche quelle proposte da Ichino sono innovazioni istituzionali: e anche nei rapporti sindacali ci sono pedaggi da pagare, distorsioni nel sistema delle informazioni, vischiosità nelle procedure di protezione.
Chi si accinge a guidare questo Paese queste cose può e deve dirle. E invece di tutto ciò non c’è traccia nei discorsi dei leader politici dell’Unione. Forse perché temono che qualcuno gridi alla contiguità tra politica e sindacato? Eppure qualcosa del genere è già stato fatto in un momento drammatico per il nostro paese e, se non avesse funzionato, non saremmo entrati nell’euro con i primi.
L’aumento di competitività è l’obbiettivo imprescindibile, e solo quella ottenuta con l’aumento della produttività è duraturo. Il taglio delle imposte previsto – e non attuato – dal Governo Berlusconi nella misura che sarebbe stata necessaria per essere efficace, la riduzione del cuneo fiscale annunciata da Prodi – un taglio degli oneri contributivi di 5 punti subito, ogni anno, per cinque anni- sono terapie shock, il cui effetto non è garantito, e che comunque vanno finanziate, o in deficit, o con tagli in altri capitoli di spesa. Le misure strutturali – scuola, ricerca, infrastrutture – dispiegano i loro effetti in un lasso lungo di tempo. La rivoluzione culturale per cui il sindacato si faccia intelligenza collettiva, richiede anch’esso tempi lunghi per realizzarsi completamente. Ma per le innovazioni istituzionali – Ichino fa gli esempi contrattazione decentrata, sciopero virtuale, una nuova rappresentanza sindacale aziendale – al confronto brevi sono i tempi, e grande l’efficacia. Da una loro adozione anche parziale, ma applicata a un bacino immenso, conseguirebbero aumenti di produttività grandi e duraturi. Senza intaccare i conti pubblici.
Invece, quanto a mercato del lavoro, la preoccupazione dell’Unione sembra concentrarsi tutta sulla cancellazione della legge Biagi. Non si avverte il rischio di invertire un processo di liberalizzazione del mercato del lavoro incominciato con il pacchetto Treu, di cui la Biagi è la logica continuazione. Si accusa la Biagi di avere precarizzato il mondo del lavoro: ed è falso , perché la precarizzazione, ammesso che sia aumentata, non lo è certo come conseguenza della codificazione di forme contrattuali già precedentemente in gran parte presenti, magari sotto altro nome. All’origine della precarietà c’è l’enorme aumento nello scarto tra le produttività tra lavori diversi. Tipicamente una trentina di anni fa i numeri di addetti a lavoro operaio e lavoro impiegatizio erano in rapporto di 2/3 a 1/3, e, all’interno di una stessa categoria, i rapporti di produttività raramente raggiungevano quello da 1 a 2. Oggi il rapporto tra numero di addetti è rovesciato, e i divari di produttività all’interno di una stessa categoria sono tanto grandi da non essere quasi non più confrontabili. Lavori con produttività marcatamente inferiori vengono espulsi e finiscono nel precariato. Non si modifica la produttività per legge: non eliminando la causa del fenomeno, è probabile che la legge produca conseguenze opposte, e che il lavoro meno produttivo esca dal precariato per entrare nella morta gora del lavoro nero.
Chi governerà questo Paese dovrà farlo ricomponendo le spaccature prodotte da Berlusconi. Dovrà farlo prioritariamente nel più grande e fondamentale dei mercati, quello del lavoro. Potrà farlo solo se il sindacato accetterà di essere attore di innovazione istituzionale. Per citare ancora Ichino:
Tweet“un minimo vitale di fiducia reciproca indipendente dall’essere più ricchi o più poveri, al governo o all’opposizione , imprenditori o dipendenti, è proprio ciò che oggi manca drammaticamente in Italia. Il difetto è di sistema: può essere corretto solo se le parti di questo sistema riescono a voltar pagina insieme, ad attivare il gioco a somma positiva, mettendo nell’angolo chi in seno a ciascuna di esse fa di tutto per impedirlo. Altrimenti, stabilire di chi è la prima colpa del fallimento, o la più grave, ci sarà di scarsissima consolazione.”
marzo 17, 2006