Come cambia la sfida cinese:
dal prodotto alle persone
di Marco Carone e Giorgio Secchi
FrancoAngeli Editore, 2010
pp. 216
La riforma del mercato del lavoro, cioè delle tradizioni e delle istituzioni determinano le modalità con cui il lavoro viene prestato, è la grande assente nell’agenda delle riforme che si auspica che vengano introdotte nell’economia cinese. Lo era prima della Grande Crisi Finanziaria del 2008, quando il pericolo sembrava essere quello di una crisi monetaria dovuta al debito estero degli USA e, per scongiurarlo, si indicava la necessità di introdurre riforme nell’economia cinese, volte ad aumentare consumi interni. Al centro dell’attenzione erano le istituzioni del welfare: tutele dei lavoratori cinesi avrebbero ridotto la necessità di risparmiare per coprirsi dai rischi di malattie e vecchiaia, e quindi avrebbero consentito di consumare di più.
La crisi valutaria non c’è stata ed è invece stata una crisi finanziaria innescata dal debito delle famiglie americane: e tutta l’attenzione e tutte le risorse sono state mobilitate per evitare il meltdown del sistema finanziario. Con il dilagare della crisi, alcuni si sono dati alla caccia ai colpevoli, altri alla individuazione delle cause, ponendo tra queste anche la necessità, negli anni precedenti, di creare strumenti atti a consentire alla Cina di finanziare le proprie esportazioni comperando il debito del suo cliente; oppure, visto dall’altra parte, volti a fare sì che le famiglie americane potessero continuare a indebitarsi e con i loro consumi aiutare centinaia di milioni di cinesi a uscire dall’indigenza. C’era da mettere mano al sistema finanziario mondiale, il mercato del lavoro cinese poteva attendere.
Con la crisi, le famiglie americane hanno drasticamente cambiato la loro propensione al risparmio, che da negativo è diventato fortemente positivo; lo Stato si è sostituito ai privati con i massicci interventi per salvare le banche e stimolare l’economia.
La priorità adesso è come uscirne, rimettendo un po’ d’ordine nei conti pubblici. Alla richiesta degli USA di abbandonare la politica di un cambio fisso e sottovalutato del renminbi sul dollaro, le autorità cinesi rispondono con irritazione: la loro politica di cambio è la componente necessaria di un modello di sviluppo basato sulle esportazioni. La politica di cambio rappresenta un sussidio alle esportazioni e una tassa sui consumi, che di fatto contribuiscono solo per il 36% al Pil. Alla riforma di un modello che produce eccessivi risparmi non basterà la rivalutazione del cambio, ma saranno necessarie riforme sostanziali: introdurre un welfare più avanzato, abbandonare le politiche famigliari del figlio unico, trovare il modo perché le aziende statali possano almeno distribuire come dividendi i loro profitti monopoli. stici. Ma ancora nell’agenda non compare di solito la legislazione sul lavoro. Questo lavoro vuole contribuire a eliminare l’anomalia di questa assenza. Assenza singolare, se si pensa alla nostra storia passata, che è lì a dimostrare quanto la legislazione sul lavoro influisca sulla ripartizione della quota di profitti, e quindi sul contributo del consumo al prodotto del Paese, e soprattutto come stimolo alla creazione di capitale umano. Oppure alla nostra storia presente, dove la necessità di adeguare i modi in cui si entra e si esce dal mercato del lavoro, e le forme in cui esso è prestato, sono praticamente sempre all’ordine del giorno (che poi questo basti a far cadere i tabù è un altro discorso).
Perché si è già acquisito che la Cina ha avviato la riforma del mercato del lavoro con la legge del 2008? Sarebbe un eccesso di fiducia, sia nelle diffusione delle informazioni in Occidente sia nella efficacia della legge in Cina. Infatti è ovvio che questa legge, proprio per il suo contenuto riformista, incontra notevoli ostacoli nella sua applicazione, oltretutto in un contesto complessivamente così grande e al suo interno così variegato. Si tratta invero di una legge per certi versi straordinaria: in un sistema caratterizzato fino ad allora da un sostanziale vuoto normativo, introduce principi e prescrizioni desunti dalle best practice occidentali, per quanto riguarda il contratto di lavoro, i licenziamenti individuali e collettivi, i diritti sindacali, i contributi previdenziali. È una vera riforma di sistema: mira non soltanto a correggere gli abusi più macroscopici, ma si estende ad una coerente normazione del rapporto di lavoro, nelle sue diverse forme e nelle sue svariate articolazioni. È riforma di sistema per i principi cardine a cui si ispira: l’esistenza di un nucleo irriducibile di diritti minimi riconosciuti al lavoratore, la necessità di incentivare e proteggere gli investimenti sulla formazione, la priorità assegnata allo sviluppo di una leale competizione per i talenti. Come si è detto, sono i dati dimensionali che determinano l’ampiezza dei problemi in un Paese di 1,3 miliardi di persone, di cui 800 milioni costituiti da popolazione rurale lasciata indietro quanto a reddito e sicurezza, mentre quelli che si sono inurbati e che hanno trovato lavoro in industrie, lo sono in contesti estremamente diversi tra loro. Merito precipuo di questo studio è di illustrare sia le normative sia il modo con il quale esse vengono interpretate, applicate, e magari anche adattate alla prassi con il tipico pragmatismo cinese, o addirittura aggirate.
Ol tre alle ragioni di interesse per così dire macroeconomico, ci sono ragioni microeconomiche per cui è importante conoscere i cambiamenti che il mercato del lavoro cinese sta attraversando, e la velocità con cui ciò sta avvenendo: una velocità a cui la Cina ci ha abituati, che si tratti di costruire grattacieli o di acquisire capacità tecnologiche. Questa conoscenza è essenziale per orientare le strategie degli operatori occidentali che intendono impiantare proprie attività in Cina: infatti ai due quadri stilizzati, uno di un mercato del lavoro totalmente flessibile, l’altro di un mercato in cui si incentivano sia l’impresa sia il lavoratore ad investire nel capitale umano, corrispondono due diverse organizzazioni del lavoro, diverse complessità dei cicli di lavorazione, diverse specializzazioni produttive.
Per l’imprenditore, più rilevante ancora del che cosa fare è il decidere per quali mercati farlo. Chi va in Cina attratto dai vantaggi di un mercato del lavoro totalmente destrutturato, con costi molto bassi, tenderà a considerare la Cina come un luogo in cui è conveniente produrre. Invece, man mano che la nuova legislazione sarà diffusamene applicata, tanto più si offriranno opportunità per chi considera la Cina anche un mercato di sbocco per prodotti fabbricati in loco. L’esperienza è lì a dimostrare che gli investimenti di delocalizzazione che hanno avuto maggiore successo sono quelli che mirano ad aumentare, a volte a creare, il proprio spazio di mercato e non quelli che mirano solo a mantenerlo lucrando sul differenziale del costo del lavoro. Il capitalismo è una scommessa sulla crescita: sarebbe veramente miope non adottare questa visione proprio in un Paese che questa scommessa l’ha fatta, con gli strabilianti risultati che conosciamo. In questo modo le scelte microeconomiche contribuiscono alla soluzione del problema macroeconomico.
La Cina sta facendo rapidi passi avanti nella adozione di istituzioni giuridiche moderne: lo fa in tutti i campi ed in misura molto maggiore di quanto si sappia. È impressionate il numero delle riforme introdotte negli ultimi cinque anni: sono stati considerevolmente rafforzati i diritti di proprietà intellettuale, riformati i diritti societario, tributario, fallimentare, introdotta una normativa antitrust. Inoltre, cosa ancora più rilevante, si è andata formando una nuova generazione di professionisti, giudici e accademici del diritto, che stanno profondamente modernizzando l’amministrazione della giustizia e che, pur in mezzo a contraddizioni e ritardi nella introduzione pratica, stanno trasformando in diritto “vivente” i precetti contenuti nelle nuove norme. Questo riduce le incognite ed i rischi per l’occidentale che investe in Cina. Così è per la legislazione sul lavoro: pone oneri in capo all’imprenditore, ma riduce le incertezze, fornendo un quadro più affidabile entro il quale fare i propri piani.
Questo lavoro è scritto in italiano per imprenditori italiani. Sono poche le imprese italiane che hanno investito in Cina’, meno ancora quelle che hanno saputo investire sulle persone, in Cina. Questo libro si rivolge a chi intende raccogliere il guanto di sfida gettato da questa nuova Cina che punta sui talenti individuali e sul capitale umano. Una sfida che forse vorremmo fosse raccolta, con la stessa determinazione, anche in Italia.
gennaio 17, 2010