Nella battaglia sull’articolo 18 la CGIL non é riuscita a bloccare la miniriforma del Governo, ma i risultati che ottiene sono notevoli: le sue manifestazioni sono state un grande successo organizzativo; la sua linea politica trova consensi in larga parte delle sinistra e ha avuto un effetto tonificante su tutta l’opposizione. Soprattutto ha dettato lei le parole del confronto, ridicolizzando sul piano della comunicazione un Governo padrone dei media.
Ma se le intese raggiunte da chi é rimasto al tavolo della trattativa si tradurranno in modifiche di legge, come fronteggiarle davanti all’opinione pubblica nei mesi e forse negli anni a venire, costituisce, per la sinistra, uno dei più impegnativi banchi di prova in vista di come presentarsi alle prossime elezioni politiche. Proprio per questo, non é materia che poteva essere chiusa con un documento presentato inopinatamente dalla minoranza in direzione. Per un partito come i DS, affrontare questo dibattito con la stessa libertà con cui abbiamo svolto il nostro ultimo congresso, vista l’importanza della posta in gioco- lo ripeto, le prossime elezioni – é un dovere che non può essere surrogato con nessuna delega al sindacato.
La CGIL ha fatto dell’art. 18 una bandiera, e su quella bandiera ha scritto la parola “diritti”. Così ha vinto la battaglia della comunicazione: il suo messaggio è passato, nella testa di milioni di italiani si è radicata l’idea che il reintegro ordinato dai giudici sia la sola tutela di un diritto che altrimenti verrebbe leso; dunque, per logica implicazione, che ogni licenziamento sia sospetto di essere discriminatorio, fino a prova del contrario.
Questo messaggio fa però pagare un prezzo politico: perché relazioni industriali basate su questi presupposti sono in contraddizione con quelle necessarie per un’economia avanzata. C’è un nesso molto stretto tra efficienza del sistema delle imprese e qualità delle relazioni industriali. Rapporti di lavoro irrigiditi nei sospetti sono la negazione della “partecipazione integrativa” (l’espressione è di Guido Baglioni), la sola che consente di superare l’inefficienza insita in ogni organizzazione gerarchica del lavoro; e dunque una forza politica che faccia propria una simile visione del mondo dell’impresa é la negazione di una leadership adatta a guidare un Paese sulla strada dello sviluppo, verso un’economia della conoscenza. Certo che esistono sfruttamenti e discriminazioni (anche se in Italia possiamo contare su un sistema giudiziario dotato di acuta e vigile sensibilità al riguardo e pronto ad applicarla con severità): ma un conto é considerarli una zavorra da cui liberare il Paese, altro invece vederli come l’inevitabile conseguenza di ogni organizzazione capitalistica del lavoro.
Questo messaggio fa anche pagare un prezzo sociale al mondo del lavoro: la spaccatura che vi si produce, tra chi ha il massimo di protezione e chi non ne ha affatto. Mi spiego: é certamente vero che rendere più facili i licenziamenti accresce la diversità dei redditi dei lavoratori all’interno di una stessa impresa, a danno di quelli che l’azienda considera non essenziali e più facilmente sostituibili. Ma è lì che sta l’origine del problema, nell’handicap di partenza di alcuni lavoratori; ed é lì che va risolto, come fanno i paesi che allo scopo dedicano risorse pari ad alcuni punti percentuali di PIL.
Se la preoccupazione sono i diritti, l’obbiettivo diventa far carico all’azienda di non espellere i lavoratori, non di ridurre le diversità. Il risultato, che è sotto gli occhi di tutti, é che in tal modo le diversità si riproducono all’esterno, come disuguaglianza tra lavoratori di serie A e lavoratori di serie B e C. Fino alla piaga della disoccupazione di lungo periodo, che non a caso nel nostro Paese è maggiore che in ogni altra economia sviluppata.
Una tale visione comporta il superamento di un equivoco che a sinistra resta talora pericolosamente aperto. Il problema delle tutele non é (tanto) un problema tra datore di lavoro e lavoratori, é (soprattutto) un problema interno alla classe operaia. L’industria la flessibilità in qualche modo la recupera sempre.
Anche l’art.18 é come un’assicurazione sulla stabilità del posto di lavoro: ma il premio sono i lavoratori a pagarlo, tutti i lavoratori, anche quelli che potrebbero farne a meno. Volere estendere meccanicamente le tutele anche alle categorie dei lavoratori che oggi ne sono prive, é un’ illusione: per l’industria le tutele sono un costo, e il costo totale che il sistema delle imprese può pagare dipende dal tipo di specializzazione produttiva. Irrigidire il sistema finisce solo per aumentare le disparità. E il sindacato lo sa bene: non sono opera del maligno le fattispecie contrattuali proliferate nel nostro Paese, ma forme, a volte surrettizie, di flessibilità tutte introdotte con il loro placet.
Voler avere la rigidità all’italiana e gli ammortizzatori sociali alla danese é un controsenso, per ragioni non di incompatibilità economica, bensì logica e pratica: perché la rigidità in uscita ha, come altra faccia della stessa medaglia, la rigidità in entrata, e non ha senso spendere soldi – in gran parte dei lavoratori stessi – per sbattere la testa contro un mercato irrigidito dalle leggi e incattivito da sospetti e risentimenti.
Le ragioni vere per una riforma che liberi il mercato del lavoro non sono di efficienza, ma soprattutto di equità: é anni che lo si ripete. E’ stato un clamoroso errore, quello del Governo, di giustificare la modifica dell’art. 18 con le ragioni dell’occupazione. Tant’è che ne é uscita una riformicchia pasticciata, una nuova categoria di lavoratori – vogliamo chiamarli gli “oltresoglisti”?- che complicheranno un panorama già affollato di tipologie contrattuali.
A noi di sinistra devono premere le ragioni dell’equità, riformare un mercato del lavoro tra i peggiori del mondo, spaccato in una dicotomia radicale. Ma non era la redistribuzione uno dei principi della sinistra? Realizzare un sistema di ammortizzatori sociali “alla danese” non é solo un problema di risorse, ma richiede un radicale cambiamento di prospettiva da parte di chi ne beneficia e da parte dell’amministrazione che li eroga. Sono discorsi fatti mille volte, e io so bene quanto forte sia le resistenza a discuterne all’interno della sinistra, ricordo perfettamente le reazioni che ho avuto, anche tra i lettori di questo giornale, quando ho provato a farli.
Oggi le cose sono cambiate: perché Cofferati chiede di partire dalla battaglia per l’art.18 per un’offensiva contro il Governo ad ampio raggio e con una varietà di strumenti. Ma chi considera che scopo della sinistra non debba essere fornire conforto indentitario ai propri simpatizzanti, bensì candidarsi a guidare il paese, il doppio prezzo della proposta Cofferati – quello politico e quello sociale – appare pesante, certamente tale da superare gli eventuali vantaggi.
“Sono convinto che la sinistra europea stia correndo un rischio molto grave”, scrive Massimo D’Alema, sull’ultimo numero di ItalianiEuropei. ” [La sinistra] rappresenta [...] una parte della società che ha raggiunto un certo benessere e un livello mediamente alto di cultura. [...]. Essa é sottoposta a una duplice pressione: dal basso, da parte di coloro che essendo fuori dal sistema delle garanzie vivono il lavoro in modi più incerti e precari; dall’alto, da quelle parti più affluenti che reclamano ancora più libertà dai vincoli e dalle garanzie”.
Né agli uni né agli altri il discorso dei diritti, intesi come diritti formali consacrati soltanto in nome di legge, porta qualcosa: non offre aiuto a chi ne é privo, e non é sentito come necessario da chi può contare sulle proprie capacità e sulle conoscenze acquisite. Non c’é posto, in questa prospettiva, per l’arroccamento in difesa di un diritto minacciato: non c’era, devo ricordarlo, nel progetto di legge Treu del marzo 2000.
Se di diritti si trattasse, se valgono oggi, avrebbero dovuto valere anche allora. E se poi si giustifica il mutamento delle posizioni con le mutate circostanze politiche, questa é la prova che non di diritti é il discorso, ma di contratti, in cui rileva l’affidabilità della controparte.
“Non é impossibile pensare a evoluzioni del capitalismo in cui la disoccupazione non fa paura perché le tutele del reddito, della formazione professionale e della dignità del lavoratore sono molto più forti. E in cui il livello di civiltà degli imprenditori è molto più alto e dunque le crisi dovute a imperizia arroganza e speculazione sono fortemente ridotte e pesantemente sanzionate dalla stessa collettività degli imprenditori.” Lo scriveva Michele Salvati nel 1996. Valeva allora per la sinistra al Governo; é il solo manifesto con cui oggi la sinistra può chiedere al Paese di ritornare a governarlo. Io continuo a crederci.
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giugno 28, 2002